STORIE DI VAL D'ARIGNA
Nel cuore delle Orobie (leggende)
Testi a cura di M. Dei Cas
La valle d’Arigna rappresenta il cuore della catena orobica: qui
si trova la sua cima più alta, il pizzo di Coca (m. 3050, unica
vetta orobica, insieme ai pizzi di Scais e Redorta, a superare i 3000
metri), massima elevazione di una testata che, improvvisa, aspra ed
apparentemente inaccessibile, si presenta a chi si addentri nella valle.
Arigna suona un po’ come arcigna, ed in effetti la valle, chiusa
com’è da questa muraglia di roccia, mostra un volto severo,
tipicamente alpinistico (il che giustifica la presenza di ben due bivacchi,
il Resnati ed il Corti, e di un rifugio, la capanna Donati).
Il cuore della valle era, in passato, costituito dalla località
S. Matteo, dove si trova il rudere dell’omonima chiesetta, sulla
cui facciata si legge l’iscrizione “1651 B. M. F. F.”.
Il luogo, abbandonato, suscita un senso di desolazione. Eppure nei secoli
passati si trattava di un centro assai importante: nel 1589, quando
il vescovo di Como Feliciano Ninguarda vi giunse nella sua famosa visita
pastorale, risiedevano qui 55 famiglie (il che significa, secondo un
calcolo approssimativo, circa 300 persone), e la chiesetta era centro
di una parrocchia, che solo tre secoli più tardi, nel 1886, venne
trasferita più in basso, nella vicina Fontaniva. Questo
è ora il centro principale della valle. Fontaniva è il
termine corretto per designare il paesino, che però è
più conosciuto con il termine improprio di Arigna, toponimo che
dovrebbe riferirsi alla sola valle, ma che viene riportato da diverse
carte. Il paese è posto ad 814 metri, nel cuore della valle,
e qui possiamo ancora percepire il ritmo di un respiro antico. La valle
d’Arigna è, infatti, fra le più ricche di tradizioni
nel versante orobico, come testimoniano la tessitura dei pezzotti,
tappeti dai colori vivaci ottenuti utilizzando la canapa e scarti di
cotone, lino e lana (attività che ha qui uno dei centri storici
più importanti), e la cropa,
un tipo di polenta cucinata nella panna, con farina di grano saraceno,
cui vanno aggiunti un po’ di farina di granturco, una schiacciata
di patate lessate e cubetti di formaggio magro. Un sapore antico che
promana anche da alcune leggende legate a questi luoghi.
Una prima leggenda testimonia la tempra ed il coraggio degli abitanti
di questa valle. È ambientata a S. Matteo, e narra di una paurosa
processione di scheletri che sarebbe uscita più volte, nottetempo,
dal piccolo cimitero del paese. Da tempo se ne sentiva parlare, ma nessuno
avrebbe potuto giurare di aver visto veramente gli scheletri camminare
per le vie del paese. Finché
una sera di tardo autunno una donna, uscita, a tenebre fatte, di casa
per recarsi nella stalla per le ultime attenzioni alle bestie prima
della notte, vide, al chiarore incerto della pallida luna, qualcosa
che si muoveva nei pressi del cimitero. Rimase immobile, guardò
meglio: non si trattava di esseri umani, erano troppo magri. Venivano
verso di lei, e ad un certo punto ebbe la certezza, raccapricciante,
che erano proprio quegli scheletri di cui la gente parlava con insistenza.
Si precipitò, allora, in casa, abbandonando la stalla aperta
e chiudendo saldamente la porta: per nulla al mondo sarebbe più
uscita di casa, quella notte. Aspettò la luce del nuovo giorno
per uscire di casa, controllare che tutto fosse a posto nella stalle
e precipitarsi a raccontare quanto accaduto alle altre donne del paese.
Era una persona di poche parole, e soprattutto non era tipo da parlare
a vanvera: per questo fu subito creduta.
Gli uomini del paese tennero allora consiglio sul da farsi: quella macabra
processione di scheletri costituiva una minaccia da stroncare subito,
prima che i figli della morte prendessero coraggio e cominciassero ad
insidiare davvero i vivi. Come fare? Mostrare che non si aveva paura
di loro. Fu così che, la notte successiva, tutti si appostarono,
armati di nodosi bastoni, in attesa del corteo di scheletri. Questi,
intorno alla mezzanotte, uscirono dal cimitero, avviandosi verso il
centro del paese. Ma trovarono pane per i loro denti. Gli uomini, ad
un cenno del più anziano, balzarono fuori tutti insieme, e tutti
insieme scagliarono contro gli scheletri i loro bastoni. Gli scheletri,
colpiti da quella gragnuola di colpi, batterono subito in ritirata:
se ne andarono, si può ben dire, con le ossa rotte. E, da quella
volta, se ne stettero buoni sotto terra, e non si fecero più
vedere per le strade di S. Matteo.
Una seconda leggenda parla, invece, della saggezza degli abitanti della
valle, della saggezza più profonda, che consiste nel saper riconoscere
i propri errori. Ne è protagonista una giovane, Caterina, che,
come tutte le donne di Fontaniva, si guadagnava da vivere tessendo i
pezzotti. Era una giovane assennata, fidanzata con un giovane con la
testa a posto, Michele. Ma, in queste cose, non si sa mai cosa può
succedere. Anche le persone più sagge possono perdere la testa
e cadere in tentazione. E la tentazione si materializzò, per
Caterina, sotto le fattezze affascinanti di un giovane che, venuto da
chissà dove, capitò un giorno a Fontaniva. Non era venuto
per trattenersi, ma solo per mostrare alle ragazze del paese certi monili
e certi gioielli che, a detta sua, non avrebbero mancato di incantarle.
Vide
Caterina e se ne invaghì, o almeno finse: le offrì il
suo gioiello più bello, una collana di coralli rossi, se l’avesse
sposato. La giovane rifiutò, ed il misterioso venditore lasciò
il paese. Ma ciò che doveva fare lo aveva già fatto: aveva,
diabolicamente (e, difatti, proprio del diavolo si trattava), insinuato
nell’animo della giovane un desiderio destinato ad accrescersi,
il desiderio di possedere quel gioiello che l’aveva colpita per
il suo splendore.
La giovane non poteva fare a meno di pensare sempre al gioiello, non
aveva pace, ed alla fine decise di confessare tutto al promesso sposo,
Michele. “Se avrò te come mio sposo per sempre”,
gli disse, ”sarò felice per l’intera vita, ma se,
insieme a te, potessi avere anche una collana di coralli rossi, la mia
felicità sarebbe completa”. Michele, che la amava sul serio,
si rattristò all’idea di non poterle assicurare la felicità
più grande, la felicità piena. Fu così che decise
di comperarle il gioiello tanto ambito. Ma per farlo avrebbe dovuto
guadagnare un sacco di soldi, e per guadagnarli non poteva rimanere
in paese a fare il contadino, se ne doveva andare via, lontano, a lavorare
in Francia. E così fece. Andò, lavorò sodo, tanto
che, dopo qualche mese, potè comperare la collana e spedirla
all’amata. Caterina
era raggiante per la gioia: aveva occhi e pensieri solo per quegli splendidi
coralli rossi, sembrava aver dimenticato Michele, che aveva lasciato
il paese natio ed i suoi affetti per lei. Mise subito la collana, si
guardò allo specchio, fece il giro delle amiche per mostrare
quel monile unico per bellezza ed eleganza.
Giunse, infine, la sera di quel giorno memorabile. Caterina pensava
che quel giorno non avrebbe più potuto riservarle sorprese, ma
si sbagliava. Quando si accinse a togliere la collana, prima di andarsene
a letto, si accorse che il filo che teneva unite le perle non si apriva
più. Le tentò tutte: cercò anche di spezzarlo con
una forbice, ma non c’era niente da fare. E proprio mentre era
in preda alla più profonda confusione, udì una voce. Una
voce ferma, severa, che le disse che avrebbe dovuto pagare per il peccato
di vanità commesso. Ed avrebbe dovuto pagare lavorando, senza
sosta, al telaio, fino al ritorno di Michele, che intanto, per il lavoro
indefesso, si era ammalato. Solo allora il filo si sarebbe spezzato
ed il peccato le sarebbe stato perdonato.
Caterina comprese che era il Signore che le aveva parlato, e comprese
anche di essersi comportata come una sciocca, di aver perso la testa
per la cosa più stupida del mondo, la vanità. Arrossì
con violenza al pensiero dell’amato Michele, che aveva consumato
tutte le sue forze per assecondare la sua leggerezza. E
si mise, a sua volta, a lavorare, di buona lena, desiderosa di riscattarsi
della sua colpa. La sua perseveranza fu premiata: Michele guarì
e tornò a Fontaniva, per riabbracciarla. Nell’abbraccio,
toccò la collana, e subito il filo si spezzò, ed i coralli
caddero in terra, disperdendosi. Finalmente Caterina era libera, libera
di sposare Michele, il suo vero gioiello, e di dividere con lui il resto
della sua vita. Così accadde. Passarono gli anni, ma Caterina
non dimenticò mai quanto era successo, ed a quanti le chiedevano
quale fosse il segreto della sua serenità, rispondeva, senza
esitare: “L’umiltà”.
Concludiamo con una terza storia, che parla della durezza delle condizioni
di vita nella valle in tempi ormai dimenticati, ma anche della generosità
della gente che la abita. Una storia raccontata da Alfredo Martinelli
ne “L’erba della memoria” (Bissoni, Sondrio, 1964).
Ne sono protagoniste una madre ed una piccola figlia, Arigna. Tornavano,
nel periodo natalizio, a Fontaniva, ma si era fatto tardi, era già
sera avanzata, per cui la madre, invece di seguire la mulattiera conosciuta
e tranquilla, cercò un’impossibile scorciatoia addentrandosi
nel cuore della valle e tagliandone i fianchi scoscesi. Il suo intento
era di giungere diritta sotto il paese, e di risalire per il sentierino
che porta dal torrente alle case più basse. Ma
si perse, e fu sorpresa anche dalla prima nevicata. La neve le impediva
di procedere, facendola scivolare ad ogni passo. Capì che non
sarebbe mai giunta a Fontaniva. Aveva con sé, in un fardello,
scampoli e tessuti, che avrebbe lavorato al telaio di casa sua, se avesse
potuto raggiungerla. Pensò, allora, a salvare almeno la figlia,
e la avvolse del fardello e dei tessuti, adagiandosi, poi, sopra di
lei, per riscaldarla anche con il suo corpo. Furono queste le ultime
parole che le rivolse: “Figlia mia, ci dobbiamo, per questa notte,
fermare qui, perché con questa neve non possiamo procedere se
non su un sentiero sicuro. Dormi tranquilla, però: non appena
ti sveglierai, riprenderemo il cammino, ed in men che non si dica saremo
nella nostra casa, che ormai non può essere lontana”. La
bimba, rassicurata dalle parole della madre, si addormentò, placida.
Non passò molto tempo: la madre dovette arrendersi, nella battaglia
contro il freddo che l’attanagliava, e morì.
Venne l’alba. Arigna dormiva ancora, ignara di tutto. Un boscaiolo
scendeva verso il fondo della valle per recuperare un po’ di legna,
e si avvide della donna, fissata nell’immobilità della
morte nell’atto di proteggere la figlia. Chiamò aiuto,
e la figlia fu salva. Ma crebbe orfana, sola, nella casa materna. Tutti,
per la verità, le volevano bene, tutti le offrivano un aiuto,
era diventata “la figlia di Arigna”, la figlia della valle,
la figlia di tutti. Tuttavia
ciò non le toglieva il peso della solitudine. Crebbe, si fece
una giovane tessitrice molto apprezzata per la sua abilità.
Giunse a quell’età nella quale la vita sembra riservare
solo sorrisi. Eppure un velo di tristezza non lasciava mai le sue espressioni,
anche quando sorrideva. Era come se non avesse mai saputo accettare
quello strano destino, un destino che le aveva portato via la madre,
ed aveva lasciato lei viva. Così, un giorno, volle tornare sui
luoghi in cui molti anni prima si era consumato il sacrificio della
madre. Ma non scese per il sentierino. Scese dalle rocce, insidiose,
scivolose. Scivolò, volò giù. Cadde, con un urto
violentissimo, poco distante dal punto nel quale era stata ritrovata
dal boscaiolo, insieme alla madre. Quello fu il modo in cui morì
la figlia di Arigna.