STORIE DEL MURETTO
Il passo del Muretto, fra storia e leggenda
Testi a cura di M. Dei Cas
Il passo del Muretto
mette in comunicazione le due omonime valli, sul versante italiano e
svizzero, congiungendo l’alta Valmalenco con l’Engadina.
Per la sua quota relativamente modesta (m. 2562) rappresenta il più
agevole valico fra i due versanti delle alpi Retiche, e, come tale,
fu ampiamente sfruttato, nella storia, per i passaggi commerciali e
militari. I primi erano alimentati soprattutto dalle esportazioni di
vino valtellinese verso le regioni di lingua germanica. A riprova di
ciò, si può ricordare una curiosa consuetudine: il municipio
di Sondrio assegnava, nei secoli passati, un premio al primo mercante
che avesse valicato, dopo i rigori dell’inverno, il passo con
un mulo carico di vino. L’itinerario per l’Engadina era
denominato “viaggio della montagna dell’Oro”, dal
momento che il tratto che risale la valle del Muretto in territorio
italiano si snoda ai piedi del versante sud-occidentale dell’imponente
monte dell’Oro (m. 3154), posto sulla dorsale che, con andamento
da sud-est a nord-ovest, scende fino al monte Muretto, che sorveglia
il passo (m. 3104).
Si tratta di un passo denso di storia. L’episodio più famoso
riguarda il rapimento dell’arciprete di Sondrio Nicolò
Rusca. Siamo agli inizi del Seicento, la Valtellina è soggetta
al dominio dei Grigioni, di religione protestante. Costoro si adoperano
diffondervi la fede riformata, suscitando resistenze ed opposizione
fra il clero ed i fedeli cattolici. Uno dei più fieri oppositori
di questo disegno è proprio Nicolò Rusca, figura che si
presta ad una diversa lettura: da una parte alcuni ricordano che, per
la determinazione del suo impegno a difesa del Cattolicesimo, fu denominato
“martello degli eretici”, dall’altra si ricorda, a
riprova del suo atteggiamento di comprensione umana, l’affermazione
“Odiate l’errore, amate gli erranti”. Una figura comunque
scomoda.
Ecco che, dunque, viene deciso una sorta di blitz che lo conduca, a
viva forza, in territorio elvetico, perché subisca un processo.
Esecutore del blitz è una schiera di sessanta armati, scesi in
Valmalenco proprio dal passo del Muretto, che lo sorprendono, nella
notte fra il 24 ed il 25 luglio 1618, nella sua camera da letto. Gli
viene concesso solo di vestire il suo abito talare, poi viene legato,
a testa in giù, sotto il ventre di un cavallo, ed il drappello
muove sulla via del ritorno, seguendo l’itinerario che passa per
Moncucco e Ponchiera. Proprio
mentre passavano di qui, sul far del giorno, le cronache narrano di
un episodio curioso.
La schiera di armati incrocia il parroco di Lanzada, che scende verso
Sondrio travestito da “Magnan” (calderaio), per timore di
essere catturato dalle milizie dei Grigioni (la loro discesa lungo la
Valmalenco non è passata inosservata, e lui era uno dei ricercati:
riuscirà, poi, a mettersi in salvo nella bergamasca). Come diceva
il don Abbondio del Manzoni, il coraggio uno, se non ce l’ha,
non se lo può dare, ma neppure, si potrebbe aggiungere, la prontezza
di spirito. Costui non aveva l’uno, ma non difettava dell’altra,
e, alla domanda se avesse visto il parroco di Lanzada, la sua risposta
fu pronta: “Sì, questa mattina ha già detto Messa”.
La marcia serrata dei soldati prosegue: la mulattiera porta da Ponchiera
ad Arquino, poi a Ca’ Ceschina, Prato e Torre. Avanti ancora,
fino a Chiesa ed a Primolo, dove la mulattiera, qui ancora visibile,
taglia il fianco orientale del monte Braccia, scende a valicare il Mallero
su un ponte e risale a San Giuseppe. Segue il tratto San Giuseppe-Chiareggio,
di cui restano poche tracce, che passa per le località Sabbionaccio
e Carotte. L’ultimo tratto, in territorio italiano, è quello
che è passa per il Pian del Lupo (errata traslitterazione di
Cià lla Lop) e risale la valle del Muretto. Qui
il tracciato è ancora ben visibile, anche per i rimaneggiamenti
successivi, apportati a fini militari.
Lasciata alla propria destra l’alpe dell’Oro (m. 2010),
la salita al passo avviene percorrendo una valle brulla, un po’
triste, che tuttavia regala ottimi scorci su alcune importanti cime:
innanzitutto sui pizzi Rachele (m. 2988) e Cassandra (m. 3226) e sull’aspra
ed impressionante parete nord del monte Disgrazia (m. 3678) a sud; poi
sulle cime di Rosso (m. 3386), di Vazzeda (m. 3301) e di Val Bona (m.
3033) a sud-ovest; ancora, sull’elegante monte del Forno (m. 3214),
ad ovest. Ad est, invece, incombe il poderoso fronte della dorsale monte
Oro-monte Muretto, un fronte segnato anche da diversi movimenti franosi.
Narrano i pastori, che ne frequentano malvolentieri le pendici erbose,
di tre confinati, cioè anime condannate da Dio a vagare senza
pace nei luoghi più remoti, che talora scagliano, nella loro
rabbia cieca ed impotente, massi su uomini e bestie: per evitarli ci
si deve fare il segno della croce. Ma torniamo dalla leggenda alla storia.
Il Rusca, anch’egli impotente, ma, possiamo immaginare, posseduto
da sentimenti di pena e tristezza più che di rabbia, vede per
l’ultima volta, il 26 luglio del 1618, i monti di Valtellina:
valicato il passo, infatti, la schiera di armati scende nella chiusa
ed ombrosa valle del Muretto svizzera, che confluisce nella più
ampia valle del Forno, e da qui raggiunge l’alta Engadina, sulle
rive dell’ampio Lei da Segl (m. 1797). L’illustre prigioniero,
spossato per le fatiche del viaggio compiuto in condizioni penose, non
può certo godersi le bellezze dell’ampia valle svizzera:
viene condotto a Coira e lì rinchiuso nella soffitta di un’osteria,
dove rimane per quasi un mese. Poi, ai primi di settembre, la destinazione
finale, Thusis, dove viene incriminato presso lo Strafgericht, il temutissimo
tribunale speciale che si occupava di processare i cattolici. Non sopravvive
alle feroci torture (comuni, peraltro, nella pratica giudiziaria di
quei tempi), e muore il 4 settembre del 1618.
Alla notizia della sua morte l’impressione, in Valtellina, è
enorme: si diffonde la convinzione che i Grigioni meditino di introdurre
con la forza la fede riformata nella valle, e nei due anni successivi
la tensione cresce, finché
scoppia, il 19 luglio del 1620, a Tirano, quel terribile moto tristemente
noto come “Sacro macello Valtellinese”, una vera e propria
strage di riformati in tutta la valle. La reazione dei Grigioni non
si fa attendere, e proprio per il passo del Muretto scende, il primo
agosto di quel medesimo 1620, un corpo di mille soldati agli ordini
del capitano Guller, che ha l’ordine di prendere Sondrio, metterla
a ferro e fuoco e congiungersi con gli altri corpi di spedizione che
sarebbero dovuti scendere dall’alta Valtellina. L’impresa
non riesce, e l’11 settembre del 1620 le truppe Grigionesi, Zurighesi
e Bernesi sono sconfitte dalle truppe Valtellinesi nella battaglia di
Tirano.
A questa battaglia, è interessante ricordarlo, è legata
una leggenda secondo la quale la statua di bronzo dell’arcangelo
Michele, in cima alla cupola del santuario della Madonna di Tirano,
si sarebbe rivolta in direzione del campo di battaglia; non solo, ma
la spada impugnata dall’arcangelo si sarebbe più volte
mossa, fendendo, minacciosa, l’aria, a simboleggiare l’intervento
divino in soccorso delle armi cattoliche. La battaglia di Tirano è,
però, solo l’inizio, per la Valtellina, di un tristissimo
periodo di campagne militari e battaglie fra i due opposti fronti, cioè
Grigioni e Francesi, da una parte, Imperiali e Spagnoli, dall’altra,
nel contesto della guerra dei Trent’anni. Questa
la storia, uno scorcio di storia del passo valicato da mercanti ed armati.
Esiste, però, anche una nota leggenda, anch’essa assai
triste, che ha come cornice la via che, attraverso il passo, conduce
in Engadina. La percorse, un giorno, il diacono Francesco, che tornava
da Sondrio a St. Moritz. Mentre camminava, solitario e meditabondo,
risalendo la valle fra Sondrio e Chiareggio, vide davanti a lui, ad
una certa distanza, un uomo alto, magro, vestito umilmente, di un nero
mantello, che pareva un pellegrino. Non riuscì bene a scorgerne
il volto, ma ebbe l’impressione di una figura emaciata, triste,
quasi segnata da un destino di solitudine, come se fosse sempre stata
allontanata e rifuggita, per paura ed avversione, da tutti gli uomini.
Impressioni, nulla più.
Nel desiderio di avere una compagnia lungo il viaggio, il diacono lo
chiamò, una prima volta, ma questi proseguì, senza voltarsi.
Chiamò di nuovo, con voce più forte, convinto che non
avesse sentito. Ma questi continuò, con passo fermo, nel suo
cammino. Un passo fermo, regolare, veloce, troppo veloce, si sarebbe
detto, o forse semplicemente regolare ed inesorabile, come il trascorrere
degli istanti di cui si intesse il tempo. Provò ancora, una terza
volta, stupito della mancata risposta: anche questa volta la sua voce
si perse, senza esito, nel malinconico silenzio della valle. Allora
si fermò, per qualche istante, stupefatto, chiedendosi se non
si trattasse di un pellegrino duro d’orecchie, o forse anche sordo.
Bastò quella breve sosta perché la figura del misterioso
viandante scomparisse ai suoi occhi.
Il diacono dovette, quindi, compiere il suo viaggio da solo. Giunto,
il giorno successivo, a St. Moritz, incontrò per primo un vecchio,
che se ne stava seduto all’ingresso del paese ed aveva disegnata
sul volto un’espressione triste. Ne chiese il motivo, e la risposta
del vecchio fu laconica: era morto un ragazzo, un ragazzo molto giovane,
non aveva che dodici anni. La morte è sempre un evento straziante,
ma quando colpisce i più giovani suscita uno strazio che sembra
non poter essere sanato: così pensò il diacono Francesco,
riprendendo il cammino. E, quasi per associazione di idee, gli venne
tornò in mente il misterioso viandante che aveva intravisto il
giorno prima. Si volto e chiese, quindi, di nuovo al vecchio se avesse
visto giungere in paese, prima di lui, un pellegrino avvolto in un mantello
nero. Il
vecchio rispose che se ne stava lì dall’inizio del giorno,
ma di pellegrini avvolti in un mantello nero non ne aveva visti passare.
Il diacono si stupì molto di questa risposta. Poi, di colpo,
comprese: nel suo cammino aveva incontrato, per un breve tratto, la
morte.