STORIA DI UN ALBERO
Il centòn dei Piasci a Monsastero ( storia e leggenda )
Testi a cura di M. Dei Cas
Se potesse parlare. Se solo potesse parlare, ne avrebbe di cose da raccontare,
quel grande castagno secolare che, per la sua mole e la singolare inclinazione
di 45 gradi, attira lo sguardo di chi, salendo dalla Maroggia verso
Monastero, passa per la contrada Piasci. In sei secoli di vita, di quante
vicende è stato testimone, se non protagonista! Bisognerebbe
dargli la parola. Ma non ci permetteremmo mai di parlare per lui. Al
più, parlare di lui, questo sì, è possibile.
Un castagno secolare, dunque, uno degli alberi monumentali di Valtellina,
denominato, localmente, centòn. Già fin dal primo secolo
di vita, nel Quattrocento, la sua storia si intreccia con quel santo,
San Benigno de’ Medici, soprannominato, per l’armonia dell’aspetto,
San Bello, che è una sorta di gloria locale, perché in
questi luoghi dimorò e predicò per molti anni, fino alla
morte, il 12 febbraio 1472. San Benigno, dunque, una grande tempra di
predicatore. E anche di camminatore. Durante
i suoi spostamenti da Monastero alla Maroggia, nei caldi pomeriggi estivi,
sostava volentieri alle cantine dei Piasci, dove poteva gustare un vino
eccellente, dal sapore “dulce et firmum”, cioè dolce
e corposo.
Il nostro castagno stava lì, a pochi passi, invitante, con le
sue fronde invitanti, già grandi e generose, a proteggere con
una frescura ristoratrice chi sostava alla sua ombra. E fra i viandanti
che si riposavano a questa ombra benedetta ci fu anche lui, il futuro
santo. Un debole vento si alzava, di tanto in tanto, come un sussurro.
Ed era come se fra il grande predicatore ed il possente castagno intercorresse
un dialogo di cui nessun altro poteva essere a parte. Cosa si dicevano?
Il santo esprimeva, forse, la sua gratitudine, per quella creatura di
Dio così preziosa. Ed il castagno ringraziava, e forse non si
limitava a questo, ma avanzava una qualche sua segreta richiesta. Forse.
Quel che è certo è che nel 1472 il predicatore Benigno
lasciò, centenario, la scena terrena, ma il centòn, che
centòn ancora non era, rimase, a guardia delle cantine nel quale
era conservato un vino così pregiato.
Quel
che accadde nei decenni successivi ci può aiutare ad intuire
cosa si fossero detti Benigno ed il castagno. Accaddero cose davvero
singolari. Il castagno cresceva, la sua mole era davvero ragguardevole,
e sembrava scoppiare di salute. Una pianta che pareva una sinfonia,
un inno alla vita. Ma i contadini, più che a lui, prestavano
attenzione alle loro cantine, perché fatti misteriosi si ripetevano,
senza che nessuno sapesse scoprirne la causa. Sì, perché
quel vino tanto prezioso che vi era conservato nelle botti antiche calava,
durante l’inverno e la primavera. In qualche caso le botti, in
tarda primavera, erano letteralmente prosciugate. Questo gettava nella
costernazione i contadini, che non si capacitavano per il furto del
vino.
Ma a nulla valsero ronde, appostamenti, turni di sorveglianza: del misterioso
ladro neppure l’ombra. E non c’erano neppure segni di forzatura
sulle porte sprangate delle cantine. Che diavoleria era mai quella?
Nessuno sapeva darne una spiegazione. Poi qualcuno, più attento,
cominciò a notare altri fatti singolari. Nelle giornate ventose
di marzo, sostando all’ombra del grande castagno, si aveva la
netta impressione che cantasse. Era come se il vento, giocando con le
sue fronte, ne cavasse melodie ilari e gioconde. Immaginiamo
un dialogo fra due contadini, appoggiati al suo tronco possente. “Di’,
ma non ti sembra che questo castagno stia cantando?” “Che
dici, quando mai si è sentito di un castagno che canta?”
“Ah, non so, ma questo pare proprio che canti”. “Non
è lui, sciocco, è il vento”. “Ma che vento
e vento, la voce del vento la conosco bene, è sempre stata quella.
Ma, ascolta: quella che si sente non è la sua voce. È
una voce che canta, è il castagno che canta.” “Beh,
si vede che la vita gli va bene. Sarà allegro. E ne ha ben motivo:
per vivere non ha bisogno di spaccarsi la schiena tutti i giorni”.
Già, un castagno allegro: una bella novità. La storia
del castagno allegro fece il giro del paese. E qualcuno cominciò
a fare due più due. Quand’è che la gente canta?
Quand’è che si sente su di giri? Non accade forse quando
si è messa in corpo qualche bicchiere di buon vino? Vuoi vedere…vuoi
vedere…
E vollero vederci chiaro fino in fondo, i contadini. Fino al fondo delle
botti: le prosciugarono e lo esaminarono con attenzione. Quel che scoprirono
li lasciò esterrefatti. Il fondo di quelle botti che erano lì
da secoli non era del tutto impermeabile, come sarebbe parso ad un primo
sguardo frettoloso: il vino poteva colare. Rimossero,
allora, con gran fatica alcune delle botti, e sotto scoprirono il colpevole
dei furti. Con le sue radici lunghe e ramificate, il castagno, quatto
quatto, era arrivato fino a lì, e succhiava, poco a poco, tutto
il vino che filtrava dal fondo delle botti. Succhia oggi, succhia domani,
non c’era da meravigliarsi se in qualche botte, all’inizio
dell’estate, non rimanesse neanche una goccia del buon vino torchiato
in autunno. E non c’era da meravigliarsi se quel castagno avesse
da tempo l’aria della pianta più allegra di questa terra,
ed intonasse qualche gioconda melodia, mentre intorno a lui i contadini,
furibondi, volevano sbattezzarsi, come si suol dire, per il fatto di
non riuscire a mettere le mani sul ladro di vino.
Com’era potuto succedere? Beh, forse il buon santo, per ricambiare
la cortesia della frescura, avrà voluto che la pianta potesse
anch’essa, da creatura qual era del buon Dio, godere dell’eccellente
nettare dell’uva della Maroggia, come ne godeva lui stesso, ritemprando
corpo e spirito. E, si sa, i santi sono santi perché fanno i
miracoli.
Questo
pensarono i contadini, ma pensarono anche che il castagno aveva alzato
un po’ troppo non diremo il gomito, ma le fronde. Per cui tennero
consulto e decisero per una via di mezzo: era giusto che a quel grande
albero, così caro al santo, fosse concesso, per onorare la sua
memoria, di attingere all’eccellente vino della Maroggia, ma con
misura e parsimonia. Detto fatto: le botti furono risistemate in maniera
tale che nessuna risultasse più prosciugata sul finire della
primavera. E quel tanto di vino che risultava mancante, lo si considerava
un’offerta al santo patrono di Monastero. Da allora tutti furono
contenti: anche il castagno, sì, nonostante molti giurassero
che, dopo la soluzione del mistero, non lo si era più udito intonare
canzoni tanto ilari e gioconde quanto lo erano state quelle del passato.
Qualche arietta spensierata, al più.
Passarono i secoli. Le ariette si diradarono. Il tronco, piegato dal
peso dei secoli, cominciò a piegarsi. Le fronte ad ammalarsi.
Il centùn divenne l’albero più amato dai bambini
nell’intera Valtellina. Sì, perché con quell’inclinazione
a 45 gradi era uno spasso risalire il tronco per poi lasciarsi scivolare
giù. Lui
lasciava fare, borbottando un po’. Così è la vita,
un intreccio di mattini e sere, di albe e tramonti. Gli davano un po’
fastidio quel vociare petulante dei ragazzi, quell’andirivieni
intorno e sul suo tronco. Ma gli faceva anche piacere osservare quelle
giovani vite spensierate, e così generazione dopo generazione.
Come finisce questa storia? Non finisce. Il centòn è ancora
lì, anche se i bambini oggi hanno giochi troppo tecnologici per
passare il tempo salendo e scendendo dal suo vecchio tronco. Qual è
il suo stato d’animo? Lo dipinge nel modo migliore una poesiola,
davvero graziosa, di Silvio Mufatti (1981), che riportiamo integralmente:
“Centon, / uecc com’e ‘l cucù, / piegàa
dai agn, / mett uia ‘n mument i tö pensée de stracc,
/ e cuntüum su uergutt de la tua primavera luntana, / quan che
ta serat fort e cien de uita / e cui rais te sügauat i but / de
cüi por disgrazia de cuntadin. / Cüntun sü de San Bignin,
/ quand che ‘l sa fermaua a la tua umbria / a sculà ‘n
ciapel de uin. / Car ul me scciatt, / go ciü la forsa gna da bef
la camamela / fam compagnia sa ta ö, / ma lagum pusà.”
Serve la traduzione? Diamola, ad ogni buon conto: “Centòn,
/ vecchio come il cucù, / piegato dagli anni, / metti via un
momento i tuoi pensieri da stanco / e raccontami qualcosa della tua
primavera lontana, / quando eri forte e pieno di vita / e con le radici
asciugavi le botti / di quei poveri disgraziati di contadini. / Raccontami
di San Benigno, / quando si fermava alla tua ombra / a scolarsi una
ciotola di vino. / Caro il mio ragazzo, / non ho più la forza
neppure di bere una camomilla, / fammi compagnia, se vuoi, / ma lasciami
riposare”.
Ricordiamoci di queste parole, salendo, da Ere (sulla provinciale Valeriana,
fra Ardenno e San Pietro di Berbenno) verso Maroggia e Monastero: fermiamoci
a far compagnia a questo grande rappresentante della vita nella nostra
valle, ma facciamolo in silenzio. Oggi non quasi ha più rami,
non ha quasi più fronde che ci permettano di sentire la sua voce.
Ma la sentiremo lo stesso. Una voce fioca. Una voce antica.