RISO E PAURA A POGGIRIDENTI

Poggiridenti, fra storia e leggenda
Testi a cura di M. Dei Cas

Scorcio di Poggiridenti alto. Foto di M. Dei Cas Correva l’anno 1929: il 10 ottobre una delibera comunale, ratificata l’anno successivo dalla Prefettura di Sondrio, cambiò il nome dell’antica Pendolasco in Poggiridenti, e tale è, ancora oggi, il nuovo nome del comune il cui territorio, ameno e di modesta estensione, si trova sul versante retico ad oriente di Sondrio, fra Montagna in Valtellina e Tresivio.
Perché abbandonare un nome che affondava le sue radici nella storia del paese (una storia ricca, che non ha molto da invidiare a quella degli illustri paesi vicini: nel 1589, alla visita pastorale del vescovo di Como Feliciano Ninguarda, vi si contavano 90 famiglie, cioè circa 600 abitanti, e nel 1816 il paese, già corte della pieve di Tresivio, nel Medio Evo, e successivamente frazione del comune di Montagna, diventa comune autonomo) per adottarne uno anonimo, che avrebbe potuto applicarsi a qualsivoglia altra località montana dalla felice collocazione climatica?
La motivazione della delibera lo spiega: la famiglia dei De Pendolasco, da cui deriva l’antico nome, risultava “da tempo immemorabile estinta” (come dire: nessuno verrà a lamentarsi…), e, soprattutto, tale nome “si presta a interpretazioni sconvenienti in contrasto con la sana giovinezza del paese”, interpretazioni presumibilmente connesse con le allusioni amene legate al verbo “penzolare” ed all’aggettivo “pèndulo”. Il nuovo nome, spiega ancora la motivazione, risulta, invece, assai più consono alla bellezza dei luoghi ed alla salubrità del clima, dal momento che il paese “si adagia su tre colli ameni, ridenti al sole, ricchi di colture perfezionate e superiori, avvolti in dolce clima di aria saluberrima”.
Sul cambio del nome, però, in paese cominciò a circolare anche una divertente storiella, riportata nella raccolta “Storie e leggende dei nostri paesi” della classe IV B della scuola elementare di Chiuro, curata nel 1976 dall’insegnante Armida Bombardieri. All’origine del nomicidio, secondo tale versione, starebbe la vanità femminile, o, perlomeno, la risaputa aspirazione di ogni ragazza a trovare un buon marito. Pendolasco, infatti, era nome talmente ridicolo che nessun ragazzo se ne veniva da fuori per corteggiare le ragazze del paese. Da qui una vibrata protesta alle autorità locali, protesta che giunse fino a Roma, cioè fino a Mussolini.
Questi prestò orecchio alla lamentela ma, per sincerarsi della sua fondatezza, mandò nel paese un ufficiale fidato, perché gli riferisse come stavano veramente le cose. L’ufficiale, entrato in paese, si imbatté subito in una donna di tale bellezza da suscitare in lui un immediato innamoramento: il classico colpo di fulmine! Le chiese, quindi, se fosse disposta ad ospitarlo, e la donna rispose di non poterlo fare, senza aver prima chiesto il permesso al marito, che sarebbe tornato più tardi dal lavoro: che l’ufficiale aspettasse lì, all’arrivo del marito se ne sarebbe riparlato.
L’ufficiale attese diverse ore, ma la donna non si fece più viva. Allora, inquieto, cominciò a guardarsi intorno con maggiore attenzione: fu così che la scorse, seminascosta dietro un poggio, in atteggiamento decisamente divertito. Non la prese bene, si arrabbiò parecchio e scrisse a Mussolini: “da un poggio ridente quella donnaccia mi derideva”. Ora, in mancanza dell’opportuna virgola (e questo serva da insegnamento a tutti coloro che la spregiano), la frase poteva essere interpretata “da un poggio ridente, quella donnaccia mi derideva” oppure “da un poggio, ridente quella donnaccia mi derideva”. Con tutta probabilità l’ufficiale intendeva alludere allo sghignazzare della donna, ma la missiva venne interpretata come elogio della bellezza del poggio. Si decise, così, che il nuovo nome del paese dovesse ispirarsi ai poggi ridenti che lo caratterizzano.
Dal paese ci vengono, però, non solo storie che muovono al sorriso, ma anche leggende che, almeno un tempo, suscitavano, raccontate nelle stalle, la sera, paura nei bambini, e non solo in loro. La ricerca già menzionata ne riporta alcune.
La prima si riferisce al “böcc de l’orch”, cioè al “buco dell’orco” (è interessante notare che un toponimo simile, “buco dell’orso”, si trova più ad est sul medesimo versante retico, vale a dire nei monti sopra Tirano). A Poggiridenti il buco dell’orco è una piccola caverna sul versante occidentale della valle della Rogna, che divide il versante montuoso sopra Montagna da quello sopra Tresivio. La valle ha un aspetto aspro e selvaggio, e rappresenta un luogo ideale per ospitare un essere malvagio e pauroso come l’orco. Nella grotta, si racconta, viveva, un tempo, un orco crudele, che, di quando in quando, lasciava l’ombrosa valle per scendere al paese e rapire, approfittando delle ombre della sera, qualche malcapitato viandante (i bambini disobbedienti che si attardavano nelle strade del paese erano le sue prede preferite). Il poveretto veniva portato nella grotta e gli toccava l’orribile sorte di fare da pasto al repellente essere.
La gente era terrorizzata, ed alla fine ci si decise a perlustrare l’aspro fianco del monte per trovare la tana dell’orco e farla finita con quella minaccia. L’unione fa non solo la forza, ma anche il coraggio, e la ricerca fu condotta con la massima accuratezza. La grotta, infine, venne trovata, mentre l’orco no, di lui non si seppe più nulla. Cosa ancor più strana, nell’antro vennero trovate anche monete false, per cui si diffuse la voce che in realtà essa fosse il covo di una banda di falsari, che coniava le monete utilizzando il rame di alcune “culdere” rubate nottetempo in paese.
Ai boschi sopra Poggiridenti è legata una seconda leggenda. Nel cuore di uno di questi boschi, si racconta, una ragazza vide, una volta, qualcosa che si muoveva. Pensò si trattasse di un animale, e guardò meglio, senza però riuscire ad identificarlo. Guardando con attenzione ancora maggiore, si accorse che non si trattava di un animale, ma di un’ombra, che correva veloce fra alcuni grandi massi. Poi, all’improvviso, si fermò e svanì. La ragazza si avvicinò al luogo dove l’ombra si era dissolta, e vi trovò un gomitolo di lana. Lo raccolse, perché la lana era di un bellissimo colore, sembrava davvero oro.
Non le parve vero di poter approfittare di quell’insperato ritrovamento: era prossima al matrimonio e non aveva ancora fatto confezionare l’abito nuziale, per cui pensò bene di portare il gomitolo alla futura suocera, abile sarta, perché ne ricavasse l’abito di cui aveva bisogno. E così avvenne: l’abito era bellissimo, splendente, sembrava confezionato con tessuto d’oro, e la sposa attendeva, trepidante, il giorno delle nozze per poterlo sfoggiare e suscitare la malcelata invidia delle amiche (e se no che amiche sarebbero?) e lo stupore degli invitati.
Il giorno tanto atteso venne, e tutti gli occhi erano per la sposa, luminosa nel vestito sfarzoso. La sorpresa di tutti fu grande quando entrò in chiesa, accompagnata dai commenti increduli delle amiche, dal suono festoso dell’organo, dall’incedere orgoglioso del padre e dalle lacrime dei parenti. Lo sposo, che l’attendeva all’altare senza averla vista prima (tutti sanno che porta malissimo vedere la sposa il giorno delle nozze prima che entri in chiesa), rimase rapito da quella visione, ed anche il sacerdote sottrasse per qualche istante lo sguardo a paramenti e messale per ammirarla. Ma l’abito, che dall’ombra era nato, all’ombra era destinato a tornare.
Sul più bello, infatti, cioè al momento dello scambio della promessa reciproca di eterno amore, le cuciture, una dopo l’altra, cominciarono impietosamente a saltare, e l’abito cadde miseramente ai piedi dell’esterefatta sposa. Ciascuno può immaginare il resto. Le amiche se ne andarono contente del pensiero malevolo “ci doveva pur essere il trucco!” Lo sposo si sentì mancare (la sposa, invece, mancò proprio, svenne). Parenti e convitati lasciarono alla spicciolata la chiesa, increduli ed imbarazzati, mentre il sacerdote se ne uscì con un “Jesus, misericordia!” che diceva tutto. Ci aveva messo lo zampino il diavolo, perché quell’ombra era proprio il diavolo. Ed aveva messo lo zampino anche su uno dei massi del bosco, che ancora ne conserva l’impronta.
Il trittico di leggende paurose si conclude con una storia che ha come protagonista il lupo, da sempre rappresentazione temutissima della ferocia famelica. Una volta un pastore di Poggiridenti alto, che conduceva al pascolo il suo gregge, venne sorpreso da un grosso lupo, tanto feroce ed audace da assalire proprio lui, per primo, disinteressandosi delle pecore. Il pastore si sentì perso, ma ebbe la prontezza di spirito e di fede di supplicare la Madonna, che accolse la sua richiesta di soccorso. Apparve, infatti, splendente e gloriosa, con in braccio il Figlio, Gesù bambino, ed ammansì prodigiosamente il lupo, che, all’istante, si fece mite e docile, tendendo la zampa al pastore. A ricordo del miracolo venne poi collocato, in quel luogo, una croce, con l’immagine di maria e di Gesù Bambino.
A Poggiridenti alto risponde Poggiridenti piano, il più recente insediamento nei pressi della ss. 38 dello Stelvio. Anche qui troviamo, infatti, una leggenda paurosa, che propone un quarto simbolo del male e della paura, il fantasma. Si crede di solito che questi abitino dimore antiche e maledette. Non sempre, però, è così.
Ne sanno qualcosa proprio a Poggiridenti Piano, dove, una volta, si trovava un grande masso, che nessuno riusciva a smuovere. Il masso era d’intralcio, cosicché si decise, un giorno, di raccogliere numerose persone che, unendo i propri sforzi, l’avrebbero avuta vinta sul masso ostinato. L’accordo fu preso e suggellato da un buon bicchiere, ma, quando una squadra di robusti uomini si recò sul luogo decisa a spostare il masso, notò che qualcuno l’aveva già fatto. Al posto del masso, infatti, era rimasto un enorme buco.
Grande fu la loro sorpresa, ma divenne ancor più grande quando notarono che qualcosa sembrava uscire dal buco, di cui non si vedeva il fondo. Si trattava di due fantasmi, che uscirono dal buco bardati del più classico dei lenzuoli bianchi. Gli uomini se ne corsero via, spaventatissimi, a raccontare quanto avevano visto, e a tutti coloro che, increduli, attribuivano la visione al buon vino bevuto poco prima, risposero di andare a vedere con i loro stessi occhi. I fantasmi, per la verità, non furono più visti, ma il buco ed il masso spostato rimasero, muti testimoni dell’enigmatica vicenda.

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