PROFEZIA DI NATALE

Triste storia di Natale a Teglio (storia)
Testi a cura di M. Dei Cas

Natale all'alpe Piazza. Foto di M.  Dei Cas Ecco una storia che sembra avere tutti gli ingredienti per commuovere anche i cuori più refrattari alle emozioni. La racconta Giuseppe Napoleone Besta, nei suoi “Bozzetti Valtellinesi” (Bonazzi, Tirano, 1878). L’ambientazione è indefinita: i fatti narrati si svolsero in un paese della Valtellina di cui l’autore dichiara di non conoscere il nome. Possiamo, però, facilmente evincere che si tratti di Teglio dal riferimento alla località Saleggio (più nota, in anni recenti, per la presenza della discarica), alla sua periferia occidentale.
Protagonista della storia è la giovane Lina, abbreviativo di Natalina, unica figlia, quattordicenne, dei nobili Azzo ed Alba, nata proprio nel giorno di Natale, e ad esso indissolubilmente legata, nel nome e nel destino. Il Besta la descrive come una fanciulla bella come un fiore e vispa come una capriola. I natali illustri ne facevano una delle più ricche ereditiere della Valtellina, destinata a sposare un nobile rampollo delle migliori casate della valle. Dopo i dieci anni i genitori l’avevano affidata per la prima istruzione al parroco, ma ora si imponeva una figura di educatrice più vicina e preparata: per questo essi scrissero a Cesare, amico di famiglia milanese, perché procurasse un’istitutrice di ottime referenze. Questi inviò una studentessa di conservatorio, Emma Vanni, e la fece accompagnare dal figlio, l’avvocato Enrico Romanelli, giovane ventiseienne di grande fascino e presenza, con tanto di baffetti con la punta all’insù.
I due raggiunsero la casa di Azzo in una bella giornata di settembre, accolti con grande cortesia e calore. Lina fu subito colpita da Enrico, dal suo bell’aspetto ed ancor più dalla cortesia ed affabilità dei modi. Ne rimase letteralmente rapita, ed avvertì ben presto anche la puntura di una certa gelosia per la confidenza che notò subito sussistere fra Enrico e l’istitutrice Emma. Enrico, a sua volta, si accolse che gli occhi della giovane erano tutti per lui, e giudicò, quindi, bene declinare cortesemente, ma fermamente l’invito a fermarsi per la vendemmia, preferendo tornarsene a Milano l’indomani, di primo mattino. Lina non chiuse occhio quella notte, e quando sentì il rumore dei cavalli e della carrozza che si allontanava, le sembrò di avvertire una forte stretta al cuore. Restò, invece, Emma, che si dedicò all’educazione ed all’istruzione di Lina, per tutto l’anno successivo.
Dopo un’estate lungo la quale questa conservò ancora vivo il ricordo di Enrico, venne di nuovo l’autunno: egli sarebbe dovuto tornare a far visita alla famiglia, l’aveva promesso, e lei lo attendeva con trepidazione. Ma la malattia del padre Cesare lo indusse a rimanere accanto a lui, a Milano, e Lina dovette rassegnarsi a vedere l’immagine cara del suo volto nella sua immaginazione. E questo per un intero anno ancora.
Giunse, così, l’agosto dell’anno successivo: Lina aveva ormai sedici anni e si era fatta una ragazza davvero bella. Finalmente, dopo quasi due anni, ecco di nuovo Enrico: veniva per un mese di villeggiatura, prima di ripartire insieme ad Emma. Lina non l’aveva dimenticato un solo giorno, e lo accolse raggiante. Ma anche lei era rimasta nel suo cuore: ora che la rivedeva, rimase profondamente colpito non solo dalla sua bellezza, ma anche dalla sua semplicità e schiettezza. Com’era diversa dalle molte ragazze che aveva avuto modo di conoscere e frequentare a Milano, tutte calcolo, civetteria e sdolcinatura! Ne rimase conquistato.
I due attendevano solo il momento propizio per manifestare i propri sentimenti, e questo venne durante una passeggiata a Saleggio, dove Azzo ed Alba avevano un podere. Mentre i genitori di Lina, insieme ad Emma, procedevano oltre una bella cascata, i due si fermarono a contemplarla. Enrico, con atto di omaggio, le baciò la mano, e lei scoppiò a piangere. Egli, compreso l’amore della giovane, non seppe fare a meno di avanzare una forte riserva: com’era possibile che lui, di modesta fortuna, potesse sposare l’unica figlia della più illustre famiglia di Valtellina, destinata ad un ben migliore partito? Ma la ragazza, quasi offesa, replicò che il cuore non può essere merce da vendere a chi non si può amare. Ad Enrico si allargò il cuore, perché l’amava profondamente, e le propose entusiasticamente di chiedere il consenso ai genitori.
Lina aderì immediatamente alla proposta, ma un’ombra le velava il viso, un’ombra che non passò inosservata al giovane, che gliene chiese ragione. Lina titubò, poi cedette e raccontò una storia singolare. Quand’era ancora bambina le era capitato più volte di fare l’elemosina, impietosita, ad una vecchia mendicante, dal volto sfigurato, considerata da tutti una vecchia strega, e quindi evitata e dileggiata. Una volta le diede un pane, e questa ringraziò, riconoscente; poi, facendosi scura in volto, aggiunse: “Peccato che tu sia nata il giorno di Natale: sei così bella!”. Queste parole riecheggiarono, con un’eco sinistra, per gli anni successivi nella mente della bambina, finché, tre anni dopo, si decise a chiederne spiegazione alla vecchia. Questa, messa alle strette, formulò una terribile profezia: “Morirai il giorno di Natale”. Questa profezia si conficcò come una spina nel cuore della ragazza, una spina che ora, nel momento della più profonda felicità, tornava a trafiggerla acutamente.
Enrico si mostrò assai meno turbato, e la invitò a non dare nessun credito alle parole di quella vecchia visionaria: non c’era alcun motivo di turbare la gioia immensa che ora sembrava illuminare l’amore dell’uno per l’altra. Il giorno successivo i due chiesero ai genitori di Lina il consenso per le nozze, e questi lo accordarono di buon grado. Due giorni dopo Enrico, ebbro di gioia, partì per Milano, dove avrebbe chiesto il consenso del padre Cesare e sistemato alcune ultime faccende, prima di tornare per le nozze. Durante la sua assenza, nella casa di Azzo ed Alba cominciarono i febbrili preparativi per la cerimonia nuziale.
Tutti apparivano trepidanti ed entusiasti, tutti tranne colei che doveva esserlo più degli altri. Lina, infatti, era, nel profondo del cuore, inquieta: non sapeva cacciare l’ombra della profezia, ed anzi, proprio ora che sia approssimava il più bel giorno della sua vita, questa si faceva più grande, quasi a volerlo oscurare. Per cacciare i pensieri più cupi si dedicò ad una pratica che amava molto, l’equitazione. Un giorno uscì con il suo cavallo preferito, il Moro, per una bella cavalcata. Giunto ad una siepe che aveva sempre superato senza difficoltà, il cavallo, quel giorno, fatalmente inciampò e cadde, disarcionando Lina, che fu sbalzata in avanti, cadendo rovinosamente su un ceppo di pioppo. Il cavallo si rialzò subito, e si approssimò alla padroncina, che però non dava segni di vita. Alla scena aveva assistito un contadino, che stava lavorando non lontano: accorse prontamente, soccorrendola e riportandola in paese.
Le sue condizioni erano gravi: aveva ripreso conoscenza, ma si era procurata una profonda ferita al costato. Il medico, accorso al suo capezzale, non nascose la gravità del colpo, affermando che la prognosi era incerta. Tornò anche Enrico, che nulla sapeva, ma che capì tutto non appena, giunto alla casa, vide tutte le imposte sbarrate. Si precipitò da Lina e rimase sconvolto vedendola a letto, pallida, emaciata, provata dalle conseguenze del trauma. Nondimeno, due giorni dopo si sposarono, ma furono nozze ben tristi! Tutti pregavano, imploravano il cielo, perché Lina si riprendesse, ma, con l’approfondirsi dell’autunno e dell’inverno, sembrava approfondirsi anche il male che la consumava.
Si accorciarono, così, inesorabilmente i giorni, e venne, alla fine il Natale, un tristissimo Natale. Una densa coltre di nubi non lasciava filtrare quasi la luce del giorno, ed una neve fitta e pesante cadeva, attutendo ogni suono. Fuori, tuttavia, era la gioia, la gioia del mattino di Natale. Nella casa di don Azzo si consumavano gli ultimi istanti della tragedia. All’approssimarsi delle undici, l’ora esatta in cui era nata, Lina pronunciò le sue ultime parole: “Enrico, io muoio…Se ti ho amato, lo sai; ricordati che al mondo nessuno ho prediletto più di te, dopo i miei cari e Dio”. Non disse altro. Morì, e con lei morì il cuore di Enrico.
Passarono alcuni decenni. Quarant’anni dopo, nel cimitero del paese, vicino alla chiesetta di san Martino, un grigio pomeriggio d’inverno, il custode, venuto per chiudere il cancello, vide un padre cappuccino, chino, quasi prostrato, su una tomba, la tomba della famiglia di Azzo ed Alba. Era passato a predicare le missioni in un paese vicino, ed era venuto a far visita a quel cimitero. Il custode gli diede una voce: era ora di andare. Questi non si mosse. Allora gli si appressò, ripetè imperiosamente l’invito e, non avuta riposta neppure questa volta, lo scosse con una certa rudezza. L’uomo scivolò, quasi, a terra. Era morto. Il custode si ritrasse, spaventato.
Non aveva mai visto quell’uomo, dal volto scavato, come provato da un lungo dolore. Sarebbe rimasto assai sorpreso se avesse saputo che, prima di prendere i voti, era stato un brillante avvocato. Enrico Romanelli.

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