MALEFICI IN VAL CODERA
Ombre, al rintocco dell'Ave Maria, nella valle senza strada (leggenda)
Testi a cura di M. Dei Cas
La Val Codera, una delle più suggestive ed amate in provincia di
Sondrio, in quanto ancora preservata dall’accesso degli autoveicoli
per la mancanza di una strada carrozzabile, è anche una delle
più ricche di leggende legate ad ombre, presenze inquietanti
e stregonerie. Molti anziani raccontano ancora di aver udito, o aver
vissuto di persona, incontri con uomini ed animali misteriosi, rivelatisi
poi manifestazioni di anime malvagie o di streghe.
La figura più celebre è quella del Valfubia, su cui si
narrano diverse storie. Costui era un uomo malvagio, che rubava anche
a persone povere, per cui fu condannato a vagare, come un’anima
in pena, di notte, assumendo sembianze sempre diverse, ora di uccello
rapace, ora di maiale, ora di ombra inafferabile. Dicono che le sue
urla lamentevoli fossero davvero impressionanti. Come spesso accade
in questi casi, per risarcirsi della sua condizione infelice prendeva
di mira quanti si trovassero a transitare da soli su sentieri della
valle, o anche uscissero di casa la sera, nella zona compresa fra Codera
e Bresciadega. Faceva, quindi, rotolare contro di loro sassi dalle gande,
oppure, più spesso, si materializzava improvvisamente, fra le
ombre della sera, terrorizzando i malcapitati con un forte soffio. L’unico
modo per tenerlo alla larga era munirsi di un rosario: quel segno di
devozione e preghiera, infatti, riusciva insopportabile alla sua anima
malvagia.
Più inquietante ancora del Valfubia è la figura di un
uomo misterioso che terrorizzava, sempre nottetempo, i viandanti sui
sentieri nei dintorni di Cola e di San Giorgio. La
sua dimora era in una grotta nascosta, da qualche parte nei pressi del
sentiero che unisce i due paesi scendendo nel cuore oscuro dell’impressionante
vallone di Revelaso. Chi lo aveva visto lo descriveva come un individuo
vestito in modo bizzarro, ben diverso da quello semplice ed essenziale
dei contadini: portava una giacca nera su pantaloni e stivali marroni.
Talvolta di lui si udivano solo rumori, il fruscio dei rami degli alberi
che scuoteva per far paura alla gente, oppure si intuiva la presenza,
dietro qualche anfratto o qualche fronda, quando i lupi, suoi amici,
ululavano nelle notti di luna piena, perché, si dice, se ne stava
sempre nascosto a spiare le persone che passavano. Ma non si limitava
a questo: altre volte scatenava la sua malvagità giungendo ad
uccidere i viandanti, tanto che si era creato un terrore tale che la
gente, al calar delle prime ombre della sera, non solo non usciva più
di casa, ma vi si chiudeva proprio dentro a chiave, sussultando ad ogni
rumore nella soffitta o alla porta di casa. Non si poteva più
andare avanti così, ed allora venne decisa una vera e propria
battuta di caccia, cui parteciparono tutti gli uomini dei due paesi,
ed anche qualche donna coraggiosa. Guidati dal lume della luna e delle
lanterne e muniti di robusti bastoni di castagno, costoro setacciarono
i boschi della zona. Alla fine la loro tenacia fu premiata, perché
apparve, fra gli alberi, l’ombra dell’uomo malvagio, che
fu riempito di energiche bastonate e scaraventato nel cuore del vallone,
dal quale non riemerse più. Rimasero, di lui, solo i flebili
lamenti che, durante i temporali, salivano dalla Caurga. Ma nessuno
ebbe più nulla di cui temere, da allora.
Torniamo, ora, verso Codera, e fermiamoci al maggengo di Cii, posto
su un bellissimo terrazzo panoramico che guarda al lago di Novate. Qui
ci accoglie una delle più classiche storie di stregonerie. Protagonista
un giovane di Codera, fidanzato ad una ragazza di Cii. Un
giorno, mentre si recava a trovarla, si imbattè in una volte
misteriosa e, seguendola, si accorse che entrava proprio nella casa
della fidanzata. Sbirciando, vide che questa e la madre, vestite della
festa, ungevano tempie, polsi e caviglie, pronunciando poi la formula
“Tre ur andà, tre ur a sta e tre ur a venì”
e volando via attraverso la cappa del camino. Preso dalla curiosità,
pronunciò anche lui la formula, ma, essendo furbo, apportò
qualche modifica e disse “Un ur andà, un ur a sta e un
ur a venì”. Si ritrovò, così, in un grande
salone, nel quale erano riunite molte persone, anche morte, mentre un
misterioso individuo, dalle gambe caprine, scriveva su un librone il
nome dei presenti. Lui tracciò sul librone una croce, perché
non sapeva scrivere, ed allora accadde qualcosa di ancora più
incredibile: forse perché era un segno che con quel posto non
si conciliava troppo, forse per qualche altro motivo, il giovane si
ritrovò, nudo e con il librone nero in mano, in cima al pizzo
d’Arnasca (così viene chiamato in val Codera il pizzo Ligoncio),
proprio sul ciglio dell’impressionante parete liscia che precipita
nella valle omonima. Siccome conosceva bene quelle montagne, riuscì
a scendere a valle, dove incontrò due donne che gli offrirono
una camicia ed un paio di calze, purché gli consentisse di cancellare
il loro nome dal libro. Allora capì tutto: la sala misteriosa
era un ritrovo di streghe e stregoni, presieduto dal diavolo, ed allora
corse dal Vescovo di Como per denunciare i malefici della valle. Questi,
nella cattedrale, lesse pubblicamente i nomi segnati sul libro. Ogni
volta che un nome veniva pronunciato, la persona corrispondente appariva
prodigiosamente. Streghe e stregoni vennero così catturati e
mandati al rogo.
Altre
storie si raccontano sulle stregonerie della Val Codera. Una di queste
parla di un gatto nero che tenta di aggredire un giovane che saliva
a Codera per trovare la fidanzata: il giovane gli taglia una zampa,
che si trasforma prodigiosamente in una mano con una fede al dito. Appena
giunto in paese, si reca poi da una donna che cerca di lui: entrato
in casa, ode il suo lamento, vede un moncone al posto della mano sinistra
e capisce che il gatto era lei, e che si trattava di una strega. Ed
allora se ne esce con una frase lapidaria: “Se eravate voi e non
siete morta, morirete”.
La gente della valle sapeva che spiriti ed esseri malefici potevano
scatenare il loro potere dal suono dell’Ave Maria, alle sei di
sera, fino ai primi rintocchi del mattino (è un detto diffuso,
in provincia di Sondrio, “suna l’Ave Maria, gira la stria”,
cioè al suono dell’Ave Maria la strega si mette a girare).
Ma il suono di questa campana, la Bàrbula, poteva anche salvare
dagli spiriti, quando suonava alle sei di mattina, ponendo fine al tempo
loro concesso per insidiare i viandanti. Si racconta che una volta,
in particolare, la Bàrbula salvò una donna che era stata
costretta a tornare di notte a Codera dopo avere acquistato una medicina
a Novate. Incontrò ad Avedèe, località dalla quale
si comincia a vedere la valle, quattro uomini con una lanterna, proprio
mentre udiva il rintocco dell’Ave Maria. Erano spiriti, e le dissero
che se non fosse suonata la campana, l’avrebbero portata via con
sé.
Per gli escursionisti
I luoghi legati a queste leggende (raccolte, insieme a molte altre,
nel volume “C’era una volta”, edito nel 1994 a cura
del comune di Prata Camportaccio) possono essere meta di una bella escursione
(rigorosamente diurna!) che descrive un elegante anello. Raggiungiamo,
dunque, il parcheggio di Mezzolpiano (m. 326), frazione di Novate Mezzola,
dove parte una mulattiera comoda e ben curata, che si inerpica sull’impressionante
fianco sinistro (per chi sale) della forra della Val Codera. Questo
sentiero è, insieme con quello gemello sul lato opposto della
valle, l’unico accesso a questa importante valle, il che la rende
pressoché unica fra le grandi valli della provincia di Sondrio.
Il
primo centro abitato che si incontra salendo è quello di Avedèe,
a 790 metri. Poco oltre, la valle comincia a mostrarsi all’escursionista:
appare anche Codera, il suo centro principale. Per raggiungere il paese
bisogna però scendere di qualche decina di metri, lambendo, quasi,
il fianco granitico della montagna e sfruttando anche due preziosissime
gallerie paramassi (i massi sono, infatti, su tracciati come questo
la più grande minaccia). Si risale, infine, ad una cappelletta
che annuncia il paese, preceduto dal suo cimitero, posto quasi di fronte
alla laterale val Ladrogno.
Codera (m. 850) ci accoglie con la chiesa, dal caratteristico campanile.
Sul sagrato un possibile prezioso punto di appoggio, il rifugio
La Locanda. Sul lato opposto del paese, abitato tutto l’anno,
si può raggiungere un secondo prezioso punto di ristoro, l’Osteria
Alpina. A questo punto si può lasciare il sentiero principale,
che, prima tappa del Sentiero
Roma, si addentra nella valle, e scendere sulla destra, seguendo
le indicazioni, al ponte sul torrente Codera, piccolo capolavoro d’ingegneria,
sospeso su quaranta metri di vuoto. Subito dopo il ponte si incontra
un bivio e si prende a destra, raggiungendo ben presto l’impressionante
forra terminale della val Ladrogno, valicata da un secondo e non meno
ardito ponte. Poi si raggiunge un più tranquillo bosco di castagni:
il sentiero, salendo, conduce alle case di Cii (m. 851).
Oltre Cii, il sentiero prosegue nella salita, con traccia meno evidente,
ma non lo si può perdere: alla fine si congiunge con il Tracciolino,
che, con un tracciato pungo più di dieci chilometri, spesso intagliato
nella viva roccia, unisce la Val Codera alla Val dei Ratti, partendo
dalla presa d’acqua della Sondel poco sopra Codera e raggiungendo
la diga sotto Càsten. Il tracciolino valica il vallone della
val Grande, entrando poi in un bel bosco, sul grande dosso di Cola.
Qui
viene tagliato da un sentiero che, percorso in salita (sulla sinistra),
conduce a Cola (m. 1018). La salita all’abitato di Cola è
uno sprofondare nel grembo del tempo. Qui il silenzio è rotto
solo dallo scampanìo delle capre. Il dosso termina alle pendici
rocciose che salgono alla punta Redescala (m. 2304), che nasconde il
Sasso Manduino.
Se, tornati al tracciolino, lo si lascia subito per seguire il medesimo
sentiero, ma in direzione opposta, cioè scendendo verso destra,
si incontra una cappelletta, posta, come molte altre, a protezione del
viandante che si accinge ad affrontare luoghi insidiosi. Bisogna, infatti,
calarsi nel pauroso cuore del vallone di Revelaso, dove massi ciclopici
sembrano dire che questo non è posto per uomini. Sul lato opposto,
il sentiero supera un punto molto esposto (massima attenzione!), prima
di condurre a luoghi più tranquilli, fino a San Giorgio di Cola
(m. 748), paese di cavatori di granito, gentile e sorprendente isola
bucolica in un mare di forre e precipizi. Dal belvedere ottima è
la vista sul lago di Mezzola. Questi luoghi, come testimonia un avello
celtico nei pressi del cimitero, hanno visto da tempo assai antico la
mano operosa dell’uomo. Se si sale alle spalle del paese e si
supera il cimitero ci si ricongiunge, seguendo le indicazioni, verso
il tracciolino.
Per
chiudere l’anello, però, bisogna procedere in direzione
opposta, imboccando un’ardita mulattiera che aggira, sulla destra,
la cima dello sperone roccioso su cui poggia il paese, si porta sul
lato opposto e scende sul suo fianco aspro e selvaggio. Anche qui la
montagna incombe sul viandante, senza però farsi mai veramente
minacciosa. Superato un ultimo tratto in un rado bosco, si giunge al
termine della mulattiera, e si scende, per una strada sterrata, a Campo
di Novate, dove una comoda strada ci riporta al parcheggio di Mezzolpiano,
dopo circa 5 ore di cammino, necessarie per superare un dislivello approssimativo
di 900 metri.