LEGGENDE DI TORRE SANTA MARIA
All'ingresso della Valmalenco
Testi a cura di M. Dei Cas
Risalendo
la Valmalenco, incontriamo un primo ponte che scavalca il torrente Valdone,
il quale, da sinistra (ovest), si getta nel Mallero, e, a 10 chilometri
da Sondrio, un secondo ponte, sul Mallero, che conduce sul lato opposto
(orientale) della valle. Se, invece di imboccare il ponte, proseguiamo
a sinistra e quindi rimaniamo sul lato occidentale della valle, dopo
un paio di tornanti raggiungiamo il centro di Torre S. Maria.
Questo comune deve la sua denominazione all’antica presenza di
una torre, posta a guardia della bassa valle, per segnalare eventuali
incursioni di popolazioni germaniche che, attraverso il passo del Muretto,
potevano percorrere la Valmalenco e calare su Sondrio. Anticamente Torre
era divisa in tre quadre.
Campo raccoglieva le contrade a sinistra (cioè a nord) del torrente
Torreggio (che scende, da ovest, dalla valle omonima). Bondoledo, distrutta
da una frana nel XV secolo, comprendeva, invece, tutte le contrade a
destra (sud) del Torreggio, a nord della chiesetta di S. Giuseppe. Melirolo,
infine, il cui nucleo centrale fu investito da una frana nel XIV secolo,
comprendeva le frazioni sulla riva orientale del Mallero, cioè
Cristini, Zarri, Cà Romegi, Scaia, Fojanini e Gianni. Diverse
sono le leggende legate a questo territorio articolato e composito.
Partiamo dalla quadra orientale, Melirolo. Già si è visto
che, nel Trecento, una frana la investì, distruggendola, in parte.
Ma le sventure, per questa frazione, non finirono qui. Circa tre secoli
dopo, nella prima metà del Seicento, fu la peste ad infierire,
la terribile peste del 1629-30, conseguente alla calata dei Lanzichenecchi
in Valchiavenna e Valtellina nel contesto delle campagne della guerra
dei Trent’Anni. Qualche cifra può aiutare a capire cosa
significò quell’epidemia per le popolazioni valligiane:
secondo il Quadrio, la peste ridusse drasticamente la popolazione valtellinese,
da 150.000 abitanti a 40.000; altre stime più prudenti parlano
di una riduzione da 60.000 a 40.000 unità, ma anche se queste
si avvicinassero maggiormente al vero, si trattò di un’ecatombe.
Ecatombe che non risparmiò la Valmalenco. Il morbo, estremamente
contagioso, la risalì rapidamente.
A Melirolo l’epidemia fu talmente rapida, da uccidere tutti gli
abitanti del nucleo centrale. Bisognava
dar loro cristiana sepoltura, ma, narra la leggenda, nessuno, fra gli
abitanti delle frazioni vicine, osò farlo, per timore del contagio.
Il paese venne, per lungo tempo, evitato da tutti, e si trasformò
in un paese fantasma. Passarono i mesi e gli anni, ed alla paura del
contagio si sostituì la paura di quei morti che non avevano ricevuto
sepoltura: era credenza diffusa, infatti, che le loro anime non potessero
avere pace e si aggirassero, quindi, inquiete, fra quelle case che già
accusavano i segni dell’abbandono.
Poi qualcuno cominciò a parlare di strane visioni: passando,
a notte fatta, nei pressi delle case da cui aleggiava un sinistro senso
di morte e di desolazione, aveva visto ombre aggirarsi fra le mura.
Non c’era di che dubitare: si trattava dei fantasmi delle vittime
della peste. Si diffuse, quindi, la credenza del paese maledetto, del
paese da evitare, soprattutto di notte, perché il risentimento
dei morti può essere assai pericoloso per i vivi, soprattutto
se è un risentimento che non si può estinguere.
Per gli escursionisti
Ancora
oggi le case di Melirolo suscitano un profondo senso di desolazione.
Per verificarlo, basta varcare il primo ponte sul Mallero e, alla prima
deviazione a destra, salire verso Cristini (m. 832). Dopo l’ultimo
tornante destrorso prima delle case, si trova il cartello della frazione
di Torre. A sinistra del cartello troviamo una fascia di prati, sul
cui limite superiore stanno, arroccate e tristi, le case di Melirolo.
Un sentiero, che parte dal centro di Cristini e si dirige verso sinistra
(nord), le raggiunge. Approfittando
della luce del giorno, possiamo soffermarci presso i ruderi, per lasciarci
assorbire da quell’atmosfera di profondo silenzio, intriso di
inconsolabile tristezza.
Torniamo, poi, indietro, sulla strada per Chiesa Valmalenco e sul ponte
sul Mallero. Mentre procediamo verso Torre, pensiamo alla fama sinistra
di questi luoghi: nel tratto compreso fra Cristini e Zarri, presso il
Mallero, infatti, si trova un masso che, si dice, reca impressa l’orma
del diavolo.
Portiamoci ora nel centro di Torre, dove si mostra la bella chiesa parrocchiale
di S. Maria, edificata nel Quattrocento e ricostruita nel 1620. Senza
salire verso la chiesa, proseguiamo sulla sinistra, seguendo il cartello
che indica i rifugi alpini (si riferisce ai rifugi Cometti,
m. 1800, all’alpe dei Piasci, Bosio,
m. 2086, nel cuore della Val Torreggio, e Desio,
m. 2836, ora inagibile, al passo di Corna Rossa, fra Val Airale e Valle
di Preda Rossa). Poco oltre, troviamo un bivio: il cartello per i rifugi
alpini indica la direzione di sinistra, cioè la strada che sale
fino al bivio per l’alpe di Arcoglio inferiore e l’alpe
Piasci, ma dobbiamo tener presente che, poco oltre S. Giuseppe, a poca
distanza dal bivio, inizia un divieto assoluto di transito, in quanto
la strada è considerata pista agro-silvo-pastorale. Se,
invece, al bivio prendiamo a destra, imbocchiamo la strada che termina
alla frazione di Ciappanico. Entrambe le località cioè
S. Giuseppe e Ciappanìco, sono legate a inquietanti leggende.
La chiesetta di S. Giuseppe, racconta la prima leggenda, che ha però
un fondamento storico, sorse alla fine del Cinquecento, nel luogo colpito,
diversi anni prima, da una rovinosa valanga, che scese dalla soprastante
valle del Venduletto e seppellì il nucleo di Bondoledo. Non fu
più possibile recuperare le salme dei suoi abitanti, tutti morti.
Venne, quindi, edificata la chiesetta, come segno di pietà per
i defunti, ma nulla fu più costruito nei prati vicini, perché,
dice la leggenda, quei prati costituiscono il cimitero degli sventurati
abitanti di Bondoledo, ed è cosa empia edificare sopra un cimitero.
Se, poi, abbiamo la possibilità di percorrere la pista per l’alpe
di Arcoglio (oppure di salire lungo il sentiero che costituisce il primo
tratto della prima
tappa dell’Alta Via della Valmalenco, e parte, segnalato da
triangoli gialli, dalla località Musci, che si trova, a m. 969,
più avanti, sulla pista), giungeremo a Pra’ Fedugno, poco
sopra i 1600 metri, località legata a storie di fantasmi.
Portiamoci,
ora, sul lato opposto della bassa Val Torreggio, prendendo, al bivio
sopra citato, a destra, attraversando il ponte sul Torreggio e raggiungendo,
dopo qualche tornante, la frazione di Ciappanico, nell'antica quadra
di Campo. Di qui parte, segnalata, la mulattiera che, tagliando il versante
settentrionale della valle, conduce alla piana dove è collocato
il rifugio Bosio (si tratta di un itinerario alternativo della prima
tappa dell’Alta Via della Valmalenco). Da qui possiamo, anche,
osservare il vasto movimento franoso che tormenta il versante meridionale
della bassa valle, e che, durante la tristemente famosa alluvione del
1987, ha provocato ingenti danni.
Ciappanìco (m. 1034) è legata ad una leggenda che ha come
protagonisti dei briganti. Si racconta che, a monte della frazione,
e precisamente alla rocca di Castellaccio (m. 1656, formazione rocciosa
ben visibile da Ciappanico), vi fosse un covo di briganti, tanto spietati
quanto inafferrabili. Costoro compivano le loro razzie scendendo verso
Torre, ed in particolare tormentavano il paese di Ciappanico. Approfittavano
del calar delle tenebre, si appostavano e tendevano agguati ai viandanti.
Non si limitavano a depredarli di ogni avere, ma toglievano loro anche
la vita, un po’ per non avere testimoni scomodi, un po’
per il mero gusto dell’azione efferata. Per questo motivo, al
calar della sera, gli abitanti del paese si chiudevano in casa, ed ogni
rumore sospetto li faceva sussultare per l’apprensione. La fama
dei predoni si diffuse in tutta la Valmalenco, e nessuno osava passare
di lì da solo, soprattutto di notte.
Chi,
invece, non aveva paura a vivere da solo, e nella dimora più
bizzarra, era l’omino legato alla leggenda della truna. Questa
ci porta sulla vetta del Sasso Bianco (m. 2490), il monte che si trova
sul crinale che separa l’alta Val Torreggio, a nord, dal versante
retico mediovaltellinese, a sud, e dall’alta valle di Arcoglio,
ad est. La sua denominazione deriva dalle rocce calcaree e biancastre
che dominano la sua cima arrotondata. Fra queste rocce, appena sotto
la cima, si trova una spaccatura di cui non si vede il fondo, e che
quindi sembra perdersi nelle viscere della terra, la truna, appunto
(il toponimo significa proprio questo, fenditura, spaccatura, cavità
scavata nella roccia). Si tratta di una struttura singolare e curiosa,
che ha acceso la fantasia popolare. Ecco che allora la truna è
diventata la dimora di un singolare omino, che di tanto in tanto si
faceva vedere a valle, per poi tornare, misteriosamente, sulla cima
del Sasso Bianco e sparire dentro la misteriosa porta.
Il Sasso Bianco rappresenta una meta escursionistica facile da raggiungere:
basta salire all’alpe di Arcoglio inferiore (percorrendo la pista
che sale da Torre, si giunge, intorno a quota 1700, ad un bivio, al
quale si prende a destra, salendo, dopo un breve ripido tratto, alle
prime baite dell’alpe, a 1976 metri), guadagnare,
proseguendo nella salita, sempre guidati dai triangoli gialli dell’Alta
Via della Valmalenco, l’alpe di Arcoglio superiore (m. 2123),
per poi proseguire alla volta del bellissimo laghetto di Arcoglio (m.
2234), posto ancora più in alto. La zona è davvero stupenda,
tanto che il celeberrimo campione dello sci Zeno Colò la definì
una delle più belle d’Europa (egli la frequentava anche
per le diverse opportunità scialpinistiche che essa offre). Seguendo
i triangoli gialli, percorriamo il sentiero che passa a destra del laghetto,
ed affrontiamo l’ultimo tratto della salita, che conduce, facilmente,
alla cima del Sasso Bianco, dalla quale si gode di un panorama superbo
sul monte Disgrazia (che da qui mostra un profilo insolito) e sull’intera
testata della Valmalenco.