L'È fÖ 'L GENARùN
Scherzi e sentimenti nel rigidissimo gennaio del 1812 (storie)
Testi a cura di M. Dei Cas
Anche in Valtellina sussiste la credenza che gli ultimi tre giorni di gennaio
(o, con qualche variante, il 31 gennaio ed i primi due giorni di febbraio)
siano i più freddi dell’anno, e qui, come in molte altre
zone della Lombardia, essi vengono chiamati i “giorni della merla”.
Si crede anche, però, che rappresentino una svolta, l’ultima
e più temibile morsa del gelo invernale, prima che la cattiva
stagione cominci, gradualmente ma ineluttabilmente, ad allentare la
sua presa.
A questa convinzione si lega una tradizione scherzosa assai diffusa
nella valle: il 31 gennaio ed il 2 febbraio bambini, ragazzi ed anche
adulti fanno a gara, ricorrendo a qualche scusa, per indurre le vittime
prescelte ad affacciarsi, sul far della sera, all’uscio di casa,
gridando poi, nel primo caso “L’è fö ‘l
genarùn”, cioè è terminato il lungo mese
di gennaio, nel secondo “L’è fö l’urs
de la tana”, cioè è uscito l’orso dalla tana.
Giuseppe Napoleone Besta, nei suoi “Bozzetti Valtellinesi”
(Bonazzi, Tirano, 1878), riporta un fatto singolare legato a questa
usanza, narratogli da una sua zia. Non cita il paese in cui avvenne,
ma, da un accenno ad una salita sul pizzo di Rodes e da altri dettagli,
possiamo supporre si tratti di Piateda.
Qui, al tempo delle guerre napoleoniche (inizio Ottocento) viveva un’agiata
famiglia di contadini, composta dai coniugi Lorenzo e Caterina Ronchetti
e da tre figli, un maschio e due femmine. La storia ha come protagonista
una delle due, la più grande, Maddalena, chiamata Lena, “una
giovane alta”, dai “lineamenti un po’ grossolani,
ma ben fatti”, dai
modi spigliati, allegri ma decisi, tanto da essere spesso apostrofata,
anche per i sonori ceffoni che non mancava di assestare ai corteggiatori
troppo focosi, come “la bella maschiotta”, cosa di cui si
compiaceva assai. Costei aveva raggiunto i diciotto anni, età
nella quale appariva del tutto naturale, a quei tempi, che una giovane
cominciasse a guardarsi seriamente intorno per trovare un giovane a
modo, da prender per marito.
Lena, tuttavia, nonostante, per l’agiatezza della famiglia, il
buon carattere ed il l’aspetto gradevole, fosse oggetto della
corte di molti giovani del paese, non sembrava affatto darsi pensiero
di questo: era amica di tutti, ma non si legava a nessuno, e sembrava
aver a cuore solo di trascorrere quegli anni felici aiutando la famiglia,
godendo delle gioie dell’amicizia e conservando quel “carattere…spensierato
oltremodo”, che “se ne rideva di tutti gli spasimanti che
le facevano la corte”.
Fra i giovani che desideravano conquistare il suo cuore vi era Antonio
Pomelli, figlio venticinquenne di uno dei più ricchi contadini
del paese, “bello e onesto giovanotto, di un carattere burlone
e allegro proprio come quello di Lena”. Date le affinità
elettive, i due giovani stavano assai bene insieme, ma intendevano quello
stare insieme in modo del tutto diverso. Antonio, che frequentava assiduamente
la casa dei Ronchetti, prestando volentieri la sua mano nelle diverse
opere della campagna, faceva una corte serrata ma discreta alla ragazza;
Lena, invece, era contenta di poter passare con lui momenti spensierati ed
allegri, ma lo considerava un amico carissimo, ed anzi, più ancora,
un fratello, per il quale nutrire il più acceso degli affetti,
ma, appunto, un affetto fraterno.
Le cose andarono avanti così, per un bel pezzo: egli non perdeva
occasione per cercare di mostrarle quanto le volesse bene: non mancava
mai nelle lunghe serate invernali passate nella stalla a famiglia riunita,
serate nelle quali tutti pendevano dalle labbra di nonna Margherita,
che non mancava mai di raccontare qualche storia fantastica ed avvincente;
non perdeva occasione per venire incontro ai desideri della ragazza,
tanto che una volta, avendola sentita lamentarsi, nella calura estiva,
per la mancanza di acqua fresca e ristoratrice, salì fino al
piccolo ghiacciaio del pizzo di Rodes, riempiendosi la bisaccia di neve,
per poi portarla all’amata, ed un’altra volta, avendola
sentita esprimere il desiderio di possedere un uccello canterino da
tenere in gabbia, rischiò la vita su arrampicandosi su un dirupo
pur di catturare quattro piccoli passeri da regalarle.
Gesti di inequivocabile significato, che però non valsero a nulla:
mentre la sorella minore Rosina si decideva alle nozze con un bravo
giovane, lei, sempre affezionatissima al suo Antonio, a tutto sembrava
pensare, fuorché a fare lo stesso. Il
giovane non sapeva più a cosa appigliarsi: l’amore diventava
sempre più struggente e l’atteggiamento di Lena lo feriva
in misura sempre maggiore. L’autunno del 1811 lo trovò
in questo penoso stato d’animo.
Una sera, però, parve giunta l’occasione per dichiararsi:
Lena lo invitò ad una passeggiata presso le rive dell’Adda,
durante la quale, vedendolo triste ed incupito, gli chiese cosa mai
avesse. Egli allora sbottò: come aveva potuto non accorgersi
di quello che lo affliggeva, dopo tanti gesti, dopo tanta frequentazione?
Lei rimase sorpresa dal suo sfogo, gli rispose, candidamente, che non
aveva la minima idea di cosa potesse tanto contristarlo, al che lui,
al colmo della disperazione, gridò che si sarebbe buttato nell’Adda,
e così voleva effettivamente fare. Corse, come fuori di sé,
fino alla riva del fiume, e solo il grido dell’amata, che lo richiamava
alla ragione, valse a fermarlo, proprio mentre stava per abbandonarsi
alla corrente del fiume. Lena lo raggiunse trafelata, e lo scongiurò
di manifestare quel che aveva nel cuore.
Fu così che Antonio, per la prima volta, trovò il coraggio
di dire con le parole ciò che pensava di aver detto nei gesti,
purtroppo invano, mille e mille volte: le disse che l’amava, e
che non poteva pensare di continuare a vivere senza il suo amore. Al
che l’amata, fortemente scossa dalle sue parole, per la prima
volta aprì uno spiraglio di speranza nel suo cuore: “Fermatevi…”
gli disse piangendo, “ve lo comando…Andiamo a casa, Antonio.
Ci penserò, sperate. Forse la Madonna benedirà le mie preghiere”.
“Grazie Lena,”, fu la sua risposta, “voi mi donate
la vita, spererò”. Ma dovettero passare ancora alcuni mesi
prima che l’amore potesse trionfare. Passò l’autunno,
non senza un altro fatto memorabile: Antonio ebbe modo di salvare addirittura
la vita di Lena, sventando l’attacco di un toro, infuriato per
la giubba e la pezzuola rosse che lei indossava. Salvata dal suo intervento
tempestivo (lanciandogli contro il forcone, Antonio era riuscito ad
arrestare la corsa del possente animale), continuò assiduamente
a pregare. Ma non aveva perso il carattere gioviale e burlone.
Giunse, così, il gennaio del 1812, uno dei più rigidi
e terribili a memoria d’uomo, con la temperatura che scese di
20 gradi sotto lo zero. “I lupi che in quell’anno desolavano
la Valtellina”, scrive il Besta,”scendeano a torme nei paesi
in cerca di preda, e non temeano avvicinarsi a fiutare le porte delle
stalle e a pascersi delle feci dei giumenti sulle vie. I contadini accendeano
grandi fuochi poco lungi dalle case onde tener lontane quelle feroci
belve che urlavano di freddo e di fame nel silenzio della notte”.
Venne anche il 31 gennaio: Lena non perse l’occasione per rinnovare
gli scherzi tanto amati, si travestì con panni maschili, avvolgendo
il volto in uno scialle di lana, per non farsi riconoscere, e si incamminò,
la sera, verso la casa di Antonio. Era
decisa a vincere la scommessa, fatta con lui, che sarebbe riuscita,
lei per prima, a farlo uscire dalla casa, secondo l’antichissima
tradizione. Giunta sull’uscio, lo chiamò, cercando di imitare
la voce del dottore del paese, il signor Carlo. Antonio udì la
voce e cadde nell’inganno: dopo aver gettato un’occhiata
da una finestra al primo piano, prese il lume e si accinse a scendere
per aprire.
I fatti, nel giro di pochi istanti, però, precipitarono: Lena,
vinta dal freddo atroce, si sentì venir meno e cadde a terra
svenuta. Un branco di lupi, che l’aveva seguita, subito si avventò
su di lei, trascinandola per la via e cercando di strapparle di dosso
i panni nei quali era avvolta. Antonio, aperto l’uscio, vide la
scena e, senza esitare, afferrò un’ascia, scagliandosi
contro le belve e disperdendole con vigorosi colpi vibrati con decisione
e precisione. Solo allora, scoprendo il capo di quel fagotto di forma
umana, vide, con raccapriccio, che si trattava di Lena! Per la seconda
volta, in pochi mesi, le aveva salvato la vita.
Fu la volta buona, perché Lena, dopo essersi riavuta, nel tepore
della casa, vinta da tanto amore, non poté fare a meno di esclamare:
“Antonio! Tu sei grande; tu sei il più nobile, il più
magnanimo uomo della terra. Antonio, perdonami se fin ora non ho appagato
l’amor tuo benedetto! Sento adesso che non meriti solo il mio,
ma tutto l’amor dell’universo. Antonio! T’amo, t’amerò
sempre e sarò tua per l’eternità.” Le sospirate
nozze non tardarono ad essere celebrate, e la camera dei novelli sposi
fu adornata da tre tappeti di pelle di lupo. Antonio benedisse sempre
l’usanza di chiamar fuori il gennaio: senza di quella, infatti,
forse non sarebbe mai giunto a coronare il suo sogno.