LA VALLE DELLA MAGA

La leggenda di un pastore e di una bellissima strega
Testi a cura di M. Dei Cas

Il prato della leggenda. Foto di M.  Dei Cas Dalla bella piana di Teglio scende, verso sud-ovest, una modesta vallecola, chiamata valle della Magàda, o anche valle della Maga, che corre ad oriente della più importante e grande valle della Rogna, quasi parallela a questa. E’ una valle che passerebbe del tutto inosservata, se non fosse che il torrentello, in un punto, si inforra fra rocce strapiombanti, e per un tratto corre nascosto fra le due pareti strette e dirupate.
Questo particolare ha acceso la fantasia popolare, che ha voluto vedere nei nascosti recessi della valle la sede di un covo di streghe (magàda, cioè maliarda, operatrice di malefici, è nome popolare che si dà alla strega). Di qui il nome, e di qui, anche, la credenza che il primo giorno dell’anno le streghe se ne uscissero tutte insieme, dandosi convegno con altre streghe ed abbandonandosi alle folli danze ed ai turpi riti del sabba (o, come meglio si dovrebbe dire, della sabba, detta anche ridda o gazzarra), nei prati e nelle selve vicine. Si raccontava che scendessero, nelle notti di tregenda, fino al Dosso Bello (Dusbél, Dossum Bellum), che costituisce il fianco orientale della bassa valle della Rogna, ad est della chiesa di San Bartolomeo a Castionetto di Chiuro, nella zona della Fràcia. Diverse leggende sono, quindi, fiorite intorno a questa valle.
Si racconta, per esempio, che queste streghe uscissero dai loro antri nelle notti più scure, per rapire dalle culle i bimbi ancora in fasce. Una, forse la più crudele, fu vista, una volta, anche in pieno giorno, sulle rive del torrentello, un po’ a valle rispetto alla forra oscura, in corrispondenza del ponte detto appunto della Maga o della Magàda. Era piccola, orrenda a vedersi, con un solo occhio, i piedi a zampa di mulo ed un cappellaccio di paglia in testa. Aveva con sé un sacco pieno di budella di bimbi rapiti, che cavò fuori, ancora sanguinolente, e lavò all’acqua del torrentello, per poi divorarle tutte intere. Terminato l’orrido banchetto, prese a risalire la valle, fino alla strozzatura, dove, al tocco della verga che teneva in mano, le rocce si aprirono, lasciandola passare, per poi richiudersi alle sue spalle. Fu vista sparire così, dai poveri contadini terrorizzati.
Intorno alle streghe della valle nacquero, però, anche leggende di diverso tenore. Si diceva che non si trattasse di repellenti megere, bensì di avvenenti fanciulle, che il primo giorno dell’anno si davano convegno danzando, ìlari e spensierate, come negli antichi riti pagani. Una di queste leggende fu raccolta e raccontata da Giuseppe Napoleone Besta, in una novella dei suoi “Bozzetti Valtellinesi” (Tirano, 1878). Ne è protagonista un pastorello, Giovannino, figlio di una povera vedova, Maria.
Costui viveva, felice, nella pace non turbata da alcun pensiero, curando il suo gregge. Giunse, così, ai quindici anni, finché, un giorno gli accadde qualcosa che lo strappò dalla sua beata spensieratezza. Non era un giorno qualsiasi, per la verità, ma il primo giorno dell’anno, che egli, però, incurante di festeggiamenti, trascorse come tanti altri giorni, conducendo le sue pecore alla ricerca di qualche modesto filo d’erba nei prati ammantati di neve. In un prato vicino alla valle della Maga gli accadde, così, di vedere un insolito spettacolo: la neve sembrava essersi ritirata, lasciando scoperta un’ampia porzione di prato, sulla quale si erano avventate le pecore, avide di erba fresca. Egli fu preso da viva curiosità, perché non aveva mai visto una cosa del genere: la vista dell’erba, in mezzo alla quale faceva capolino addirittura qualche piccolo fiore, lo mise in uno stato d’animo particolarmente allegro. Manifestò, così, il suo buon umore intonando un’aria improvvisata con lo zùfolo, che amava suonare nei lunghi pomeriggi passati a vegliare il gregge.
Ma le sorprese erano solo all’inizio: d’improvviso, come dal nulla, apparvero tre bellissime fanciulle, che gli si avvicinarono mostrando di gradire molto le sue melodie. Una, in particolare, la più giovane, con una grazia ed una soavità che rapirono il ragazzo, gli dimostrò tutta la sua simpatia, elargendo sorrisi che si impressero indelebilmente nel suo cuore, che non aveva mai conosciuto il sentimento dell’amore. Il tempo volò e venne, ben presto, la sera, in quello che era uno dei giorni più corti dell’anno: con essa venne anche, per le fanciulle, il momento di prendere congedo. Incuranti delle suppliche di Giovannino, che desiderava che lo seguissero nella sua casa, si mossero per andare, ma la più giovane, prima di scomparire, gli diede l’arrivederci al primo giorno dell’anno successivo. Poi, più nulla: svanirono come i sogni al primo sbatter di palpebre. Giovannino cercò, chiamò, invano.
Tornò più volte, i giorni successivi, in quel luogo, ma non vide nulla, se non la neve, che si era riconquistata la parte di prato dalla quale era stata misteriosamente estromessa. Non gli restò che rassegnarsi e portare con sé il ricordo di quell’incantevole incontro. Un ricordo che lo accompagnò tutti i mesi successivi. Anche in piena estate, quando il sole picchiava implacabile, egli invocava il primo giorno dell’anno, e la cosa non passò inosservata alla madre, che si decise a chiedergli cosa mai gli succedesse. Egli raccontò l’accaduto e la madre non si mostrò affatto sorpresa: al povero padre, gli disse, era apparsa almeno cento volte la terribile Maga in persona, con il piede di mulo ed il cappello di paglia in mano, ed altrettante volte egli l’aveva vista scomparire nelle fiamme dell’abisso.
Non c’era di che stupirsi: le streghe assumono le sembianze più diverse. C’era, addirittura, modo di rapirne una, purché si fosse abbastanza scaltri e pronti. Bastava scagliarle contro il cappello e colpirla, per poi andarsene: la strega sarebbe, allora, stata costretta a seguire il suo possessore, per restituirglielo e, una volta entrata nella sua casa, sarebbe dovuta rimanere per sempre al suo servizio. A Maria non parve vero di poter avere una nuora docile ed obbediente: ormai gli anni avanzavano, e le energie venivano rapidamente meno. Così, all’approssimarsi dell’inverno, ripeté più volte al figlio le istruzioni sul da farsi. Quanto venne, infine, il tanto atteso primo giorno del nuovo anno, Giovannino sapeva bene come comportarsi. Si recò di nuovo nel prato dove aveva incontrato l’anno precedente le tre fanciulle, questa volta con il cappello saldamente stretto in mano.
Le tre ragazze non mancarono all’appuntamento, ed egli, senza perdere tempo, scagliò il cappello contro la più giovane, per poi incamminarsi subito verso casa. Questa lo seguì, con il cappello in mano, fin dentro la casa, facendo l’atto di restituirglielo. La madre, allora, prontamente richiuse con il catenaccio la porta alle sue spalle: ora era prigioniera di quella casa. La giovane, smarrita, pianse ed implorò la donna ed il ragazzo perché le restituissero la libertà, perché le permettessero di tornare, prima del calar del sole, nella sua dimora, ma fu tutto inutile. Il giovane le dichiarò il suo amore e le disse che sarebbe stata la sua sposa e la madre dei suoi figli.
La giovane, allora, fece atto di rassegnarsi a quella nuova vita, ma ammonì Giovannino con queste parole: “Tu avrai la moglie più bella che pastore abbia mai avuto, e la tua casa sarà felice e prospera, allietata dal sorriso dei bambini; io sarò una moglie fedele e devota, paziente ed attenta; potrai anche picchiarmi, nei momenti d’ira, ed io saprò sopportare; una sola cosa, però, non potrai mai fare, colpirmi con un manrovescio: se farai questo, mi perderai per sempre”. Egli giurò e spergiurò che mai e poi mai gli sarebbe venuto in mente di farle del male, perché l’amava profondamente ed era la gioia dei suoi occhi.
La giovane divenne così sua moglie, e gli diede presto due splendidi gemelli, un bambino ed una bambina, che diffusero nella casa la gioia. Crebbe anche la prosperità, e tutto sembrava andare per il meglio. Ma la stoltezza, vera tragedia della condizione umana, impedisce all’uomo di apprezzare i beni che possiede, dopo che li ha tanto desiderati: così anche l’amore di Giovannino per la moglie cominciò, dopo qualche anno, ad affievolirsi, nella stessa misura in cui cresceva, invece, quello per i figli, che venivan su belli e vispi.
Egli si mostrava sempre meno affettuoso verso di lei, ed aumentavano le occasioni nelle quali la trattava con una freddezza che, ben presto, si tramutò in asprezza. E così, quasi fatale, venne anche il primo schiaffo, per una minestra troppo salata. Superata quella soglia, Giovannino non seppe più frenarsi: era diventato duro nei suoi confronti, ma la moglie sopportava sempre, senza mostrare segni di insofferenza. Finché, un giorno, egli tornò a casa e, accortosi che non era stato ancora acceso il fuoco per cucinare la cena, non stette neppure ad ascoltare le giustificazioni della donna, che aveva avuto il suo bel daffare nell’intera giornata, e la colpì con il dorso della mano, girandosi, poi, per accendere il fuoco. Quando si volse di nuovo verso di lei, si accorse che era sparita.
La cercò in tutta la casa, ed anche fuori, chiese ai bambini ed all’anziana madre, chiese anche in paese, ma nulla: di lei si era persa ogni traccia. Si ricordò, allora, delle sue parole, e comprese che quel che aveva fatto. Troppo tardi: passarono settimane e mesi, ma lei non tornò più. Tuttavia accadeva nella casa qualcosa di prodigioso: quando l’uomo tornava, la sera, dai campi, trovava tutto in perfetto ordine, come se la moglie fosse ancora in casa. La madre, che aveva ormai perso totalmente la sua lucidità per l’età avanzata, non sapeva dire cosa accadesse, mentre i figli, interrogati, rispondevano, candidi, che era la cara mamma a fare tutti i lavori domestici.
Giovannino non era più lui: la misteriosa presenza della moglie ed il peso della solitudine lo inasprirono al punto da fargli perdere le staffe anche nei confronti dei figli, che una volta, per una lieve mancanza, giunse a percuotere. Perse, così, anche loro, perché subito scomparvero alla sua vista, lasciandolo nell’autentica disperazione. Quell’anno disgraziato perse anche la madre, che morì di vecchiaia.
Rimasto completamente solo, pensò che così non poteva continuare a vivere: doveva riavere a tutti i costi la moglie ed i figli. Attese, quindi, il primo dell’anno: erano passati dieci anni esatti dal primo incontro con le tre fanciulle. Ma quel giorno era ben diverso: non c’era il sole a diffondere la sua luce nella fredda aria di gennaio. Un cielo plumbeo incombeva sul paese ancora assonnato, scaricando sulle pigre case la neve, che cadeva a larghe falde. Ma Giovannino non dormiva e, sul far del giorno, si recò nel prato legato a così cari ricordi. Ma non accadde ciò che sperava, non comparve nessuno, nulla ruppe il tetro silenzio del luogo. Attese, ed attese ancora, poi, vinto dalla disperazione, si avvicinò al dirupo nel quale sprofondava il torrente e vi si gettò Lo cercarono, il giorno successivo, e, seguendo le sue orme, capirono quello che era successo, ma nessuno osò avventurarsi fra le rocce della forra per recuperare il cadavere dell’infelice.


Per gli escursionisti

Se vogliamo visitare i luoghi di questa triste leggenda, dobbiamo percorrere la strada provinciale panoramica dei Castelli, che da Montagna in Valtellina sale a Teglio, passando sopra Ponte e Chiuro ed attraversando Castionetto di Chiuro. Oltrepassata Castionetto, troviamo un primo ponte, quello sul torrente Rogna, e proseguiamo fino a San Giovanni. 800 metri circa oltre il vecchio edificio della scuola elementare di San Giovanni, poco prima della località Mangione, troviamo un secondo ponte, il ponte della Magada, posto a valle della forra. La valle appare, dal ponte, come una modesta gola, invasa da vegetazione caotica, un luogo tutt’altro che attraente. Appena sotto il ponte, si può ancora osservare una cappelletta cadente, l'unico baluardo a salvaguardia dei viandanti che un tempo salivano a Teglio per un frequentato sentiero. Insomma, anche se non è prossimo il capodanno, la tentazione è quella di lasciarsi alle spalle l’inquietante luogo.
Per guardare più da vicino la forra, però, dobbiamo proseguire verso Teglio. Incontriamo, così, la bella e solitaria chiesa di S. Antonio, appena prima di un tornante sinistrorso. Proseguiamo la salita fino all'ultimo tornante destrorso prima della chiesetta di San Martino, presso il cimitero di Teglio: qui lasciamo la strada e, poco oltre il tornante, scendiamo, sulla sinistra, ai prati sottostanti, approssimandoci al piccolo corso d’acqua che li attraversa. Scendendo per un breve tratto verso valle, in una selva dall’atmosfera arcana, ci troveremo sul limite della forra che la leggenda vuole porta della dimora delle streghe. Forse ci potrà capitare di udire il flebile lamento dello sventurato pastore, che piange sulla miseria della condizione dell’uomo, incapace di trattene l’agognata felicità non appena questa gli tocca in sorte.

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