LA LEGGENDA DEL LAGO DI SASSO
Come nacque uno dei più bei laghetti orobici (leggenda)
Testi a cura di M. Dei Cas
Questa leggenda riguarda l’origine di uno dei più bei laghetti
della catena orobica, il lago di Sasso, ai piedi del pizzo dei Tre Signori,
in alta val Biandino, sul versante orobico bergamasco. Siamo, quindi,
oltre i confini delle Orobie valtellinesi, ma, essendo il laghetto facilmente
raggiungibile con una escursione che parte dalla Val Gerola (escursione
che, per la suggestione dei luoghi attraversati, non può non
essere prima o poi messa in programma da chi ama questi scenari), il
racconto merita di essere menzionato in questa sede.
Prima, però, bisogna dar conto di ciò che, a proposito
dell’origine del lago, dice la scienza: una grande frana, scesa
dal versante di sinistra (per chi sale) dell’alta val Biandino,
ed ancora ben visibile, avrebbe creato uno sbarramento all’imbocco
della piana ai piedi (in direzione nord-ovest) del Pizzo dei Tre Signori,
sul versante orobico bergamasco, e, data la natura impermeabile delle
rocce di questa zona (si tratta del verrucano lombardo, dal caratteristico
colore rossastro), tale sbarramento avrebbe permesso al torrente Troggia
di formare il piccolo ed incantevole specchio d’acqua. Ma ciò
che la scienza non ci dice è perché cosa abbia causato
la frana e, soprattutto, perché dal lago emerga un grande masso,
muto ed enigmatico. Bene: dove non giunge la scienza, là ci viene
in soccorso la tradizione popolare, che racconta come andarono le cose.
Protagonista della leggenda è un pastore solitario e misantropo,
di cui si è perso il nome, e si ricorda solo il soprannome, Ransciga
(termine dialettale equivalente a ciò che in terra di Valtellina
si chiama roncola o “mèla”, coltellino a lama ricurva
che i contadini portavano sempre in tasca perché tornava utile
in mille occasioni, per tagliare pane e formaggio come per fare la punta
ad un bastone). Un
pastore poco socievole, dunque, che se ne stava bene solo con le sue
capre, nei pascoli delle montagne che circondano il Pizzo dei Tre Signori.
Gli capitò, così, un giorno, mentre stava a guardare il
cielo senza nuvole, così simile a quegli stati d’animo
senza pensieri che tanto gli piacevano, di osservare un uccello mai
visto. Da esperto conoscitore di quelle montagne qual era, non poté
non rimanere stupefatto nel vedere quel volatile nerissimo e gigantesco,
che volava là, in alto, presso la cima del pizzo dei Tre Signori,
senza neppure muovere le ali. E mentre era intento a domandarsi di qual
diavolo di uccello si trattasse, questi, come se si fosse accorto della
sua insistita attenzione, fermò per un istante il suo volo, lo
puntò e scese in picchiata come se volesse ghermirlo e portarlo
via. Il pastore fece appena in tempo a rifugiarsi dietro un grande masso,
per poi correre al suo baitello: al prossimo assalto del volatile, non
si sarebbe fatto trovare impreparato! Uscì, infatti, armato del
suo fucile, perché non era tipo da lasciarsi spaventare troppo
facilmente. Se ne stette quindi fermo a tranquillo ad attendere il successivo
attacco, che non tardò a venire: quando il misterioso volatile
gli fu di nuovo addosso, gli scaricò contro i pallettoni del
suo fucile.
Quel che accadde poi ha dell’incredibile: l’uccello, colpito,
emise un urlo che nulla aveva di animalesco e si tramutò in una
palla di fuoco, precipitando in basso, nella piana del torrente Troggia.
Al gran fragore seguì un gran fumo, simile ad una nebbia, di
color giallastro, ed una grande puzza, mai sentita.Il
Ransciga, superato lo stupore, si lasciò vincere dalla curiosità,
e scese a vedere. Quel che vide era davvero prodigioso: al posto della
piana verdeggiante c’era un’enorme buca, circondata da massi
di tutte le dimensioni, ed era proprio da lì che uscivano il
fumo e la puzza. Istintivamente, sparò ancora, in direzione del
centro della buca, e fu allora che dal cuore della terra udì
salire una voce terrificante: “Io torno all’inferno, ma
tu resterai per sempre dove ti trovi adesso”. Comprese, allora,
di che diavolo di uccello si trattasse (era proprio il diavolo!), ma
questo fu il suo ultimo pensiero, perché venne tramutato, subito
dopo, in un grande masso. Il tempo, poi, circondò il masso di
uno specchio d’acqua, che colmò la buca diabolica, e, da
allora, qui tutto sembra pace e silenzio.
Per gli escursionisti
Per gustare questa pace e questo silenzio dobbiamo salire fino ai 1992
metri del lago. L’itinerario più consueto parte dal rifugio
Madonna della Neve di Val Biandino (m. 1595), che si raggiunge da
Introbio, in Valsassina, ma ne esiste uno, più lungo ma di grande
suggestione panoramica, che parte dalla Val Gerola. Percorsa, da Gerola
Alta, la strada per Castello e Laveggiolo, portiamoci fino al parcheggio
di Laveggiolo (m. 1471), e qui lasciamo l’automobile. Dirigiamoci,
poi, verso il rifugio di Trona
Soliva, segnalato da diversi cartelli: attraversata (seguendo una
pista carrozzabile o un più breve sentiero) la bassa val Vedrano,
dobbiamo lasciare, seguendo un cartello, la pista sterrata per imboccare
un sentierino che sale per un tratto ripido, prima di iniziare, con
qualche saliscendi, la traversata del fianco alto della valle della
Pietra, fino ai 1907 metri del rifugio (che possiamo raggiungere anche
salendo direttamente da Gerola per la valle della Pietra, ma questo
renderebbe assai più faticosa l’escursione).
Proseguiamo
verso la bocchetta di Trona (in direzione sud-sud-ovest, seguendo il
sentiero che, salendo gradualmente, aggira un dosso e ci porta ai piedi
di un largo vallone, che culmina alla sella della bocchetta, posta a
2092 metri). Il sentiero ci permette di ammirare un ottimo panorama
sulla valle di Pescegallo e sui pizzi di Trona e dei Tre Signori, a
destra della diga di Trona. Il pizzo di Trona, in particolare, appare
imponente e massiccio, mentre più defilato rimane, alla sua destra,
il pizzo dei Tre Signori, che pure è più famoso e più
alto. Raggiunta la bocchetta, a 2092 metri, soffermiamoci ad ammirare
il panorama sul versante retico, dove si distinguono, da sinistra, il
pizzo Cengalo, i pizzi Gemelli, i pizzi del Ferro, la cima di Zocca,
le cime di Castello e Rasica, i pizzi Torrone, il monte Sissone ed il
monte Disgrazia, che si distingue per la mole imponente.
Oltre la bocchetta, siamo in alta val Varrone, dominata dal pizzo omonimo.
Quella che in realtà è la vetta del pizzo sembra una cima
secondaria di fronte all’inconfondibile dente. Seguendo le indicazioni
per il rifugio S. Rita,
scendiamo per un tratto verso sinistra, per poi proseguire, sempre verso
sud-est, con una lunga traversata, a quota 2020-2040, fino alla bocchetta
della Cazza, dove si trova, a 2000 metri, il rifugio S. Rita. Vale la
pena di ricordare che il tratto dalla bocchetta di Trona al rifugio
ha un rilevante interesse storico, poiché appartiene all'antichissima
Via del Bitto
che collegava la Valtellina al lecchese.
Poco prima di raggiungere il rifugio, troviamo una deviazione, segnalata
da cartelli, che ci fa imboccare un sentiero che taglia il fianco montuoso
e scende gradualmente al Baitello del Lago (m. 1844). Seguendo le segnalazioni
saliamo poi verso il ripiano terminale della val Biandino, dominato,
in alto, dal Pizzo dei Tre Signori. Passiamo
poi a valle del fianco montuoso che, alla nostra sinistra, mostra un
imponente movimento franoso, di cui ora conosciamo l’origine.
Alla fine appare, bellissima, la meta, che dal sentiero abbiamo solo
intravisto per un breve tratto, e che ora invece si mostra in tutta
la sua bellezza: il lago di Sasso (m. 1922).
Lo spettacolo che si offre al nostro sguardo ripaga ampiamente le oltre
tre ore e mezza di cammino necessarie per giungere fin qui, superando
poco più di 700 metri di dislivello in salita. Una nota di tristezza
vela però questa pura gioia per gli occhi: il destino del laghetto,
anche se in tempi che superano di gran lunga quelli in cui si misura
l’esistenza dell’uomo, è segnato, in quanto i depositi
alluvionali che vi si raccolgono finiranno per interrarlo. Quando ciò
accadrà, forse anche allo sventurato Ransciga sarà concesso
di uscire dalla sua prigione di pietra. Nel frattempo possiamo trovare
il racconto che della sua leggenda ha fatto Giulio Selva nel volume
“Il pizzo dei Tre Signori”, di Angelo Sala (ed. Bellavite,
2002).