IL TANANAI
Quando anche gli sciocchi sono indispensabili (leggenda)
Testi a cura di M. Dei Cas
Esiste,
in molti dialetti valtellinesi, l’espressione: “Te se ‘n
tananài”, che significa, più o meno, “sei
uno sprovveduto, uno sciocco”. Una leggenda, diffusa a Villa di
Tirano, ne spiega l’origine. Essa rimanda ad uno sfondo storico
ben preciso, momento fra i più tristi della storia valtellinese.
Correva l’anno 1629, quando i lanzichenecchi calarono nella valle
dalla val Bregaglia e dalla val san Giacomo, e, prima di proseguire
per il lecchese, il milanese e Mantova, vi restarono quanto bastò
per portare il terribile morbo della peste. Si trattava di quell’epidemia
resa famosa dalla descrizione manzoniana ne “I promessi sposi”.
Il flagello della peste, che seguì quello dei saccheggi e delle
devastazioni, che sempre si accompagnano al passaggio di eserciti, fece
strage anche nel tiranese, tanto da indurre molti a cercare scampo sui
monti.
Fra i fuggiaschi che lasciarono Villa di Tirano vi erano anche tre donne,
Caterina, Lucia e Giuseppina, che trovarono rifugio in un “bait”
(baitello usato per la conservazione di alimenti) in località
Bursée. Erano decide a rimanere lì fino alla fine della
pestilenza. Ma come sapere quando il morbo avrebbe cessato di avvelenare
l’aria? Con un metodo rudimentale ma sicuro: l’esposizione
notturna di alcune ciambelle di segale, dette “bresciadèli”.
Il
morbo, infatti, aveva il potere di intaccarne rapidamente la freschezza,
cosicché queste si presentavano, il mattino successivo, completamente
ammuffite. Fu così che le tre donne evitarono di scendere a valle
troppo presto, scampando in tal modo da morte sicura.
Passarono quaranta giorni, ed un bel mattino ebbero la lieta sorpresa
di trovare il pane ancora intatto. Non persero quindi tempo, e presero
la via del ritorno al paese, dove però le attendeva uno spettacolo
terribile: ovunque, solo segni di morte. Non c’era rimasta anima
viva. Non restò loro che mettersi in cammino, per cercare un
luogo in cui fosse sopravvissuto qualcuno. Decisero di incamminarsi
verso l’alta valle.
Non sembrava che a nord del tiranese le cose fossero andate meglio,
ma ecco che a sant’Antonio Morignone si imbatterono in un uomo
dall’aspetto veramente singolare: era piuttosto brutto, ancor
più sporco e, soprattutto, ridicolmente impacciato e goffo nei
movimenti. In altri tempi non l’avrebbero degnato di uno sguardo,
o addirittura si sarebbero prese gioco di lui, ma, dopo quanto avevano
vissuto, quest’essere sopravvissuto alla morte sembrò loro
l’incarnazione stessa delle vita, della speranza in un futuro
di ricostruzione e ritorno alla normalità.
Così, letteralmente, se lo portarono via, a Villa, caricandolo,
a turno, su un gerlo che si erano portate appresso, perché non
si stancasse. Gli
diedero anche un soprannome, Tananài, appunto, e se lo divisero
come marito. Nacquero, così, figli e figlie, che, cresciuti,
si sposarono e diedero vita ad una successiva generazione. Fu così
che il tiranese si ripopolò. E fu così, anche, che nacque
il modo di dire: “sei un tananài”. E’ ancor
viva la tradizione che raccoglie, il primo sabato di febbraio, i discendenti
dei Tananài, per ricordare, pregando e festeggiando, l’antica
origine comune.
La simpatica leggenda è riportata nel libro "C'era una volta",
edito dal Comune di Prata Camportaccio nel 1994, che riporta leggende
raccolte da ragazzi di diverse scuole della Provincia di Sondrio.