IL PUZ DI STRII
Entrando in Val Gerola, fra storia e leggenda
Testi a cura di M. Dei Cas
Puz
di Strii, Pozzo delle Streghe: è questo uno dei molti luoghi
che, in terra di Valtellina, sono legati alla credenza del convegno
fra streghe, stregoni e demonio, il terribile sabba, nel quale le forze
oscure consolidano la loro alleanza, praticano riti sanguinosi od osceni,
rinnovano il voto di operare a danno di uomini ed animali. Siamo in
una valle densa di storia e leggenda, la Val Gerola, e proprio al suo
ingresso, cioè in quel paese di Sacco che ebbe, in passato, un
ruolo importante dal punto di vista economico.
Appena sotto il paese, in un bosco a monte dei prati della Morata, si
trova, nascosto agli occhi dei curiosi, il pozzo maledetto. Non di vero
e proprio pozzo, però, si tratta, bensì di una roccia
posta alla sommità di un avvallamento, nel folto della selva,
con una spaccatura, nel mezzo, che trattiene l’acqua piovana,
che, quindi, vi ristagna per buona parte dell’anno (la si trova
anche d’inverno, ghiacciata). L’acqua che ristagna è
uno dei simboli del male, come tutte le realtà naturali che sembrano
rovesciate rispetto all’ordine consueto. L’acqua, fonte
di vita quando è chiara e pura, diventa invece veicolo di malattie
quando si intorbida, stagnando. Non c’è da meravigliarsi,
quindi, se l’immaginazione popolare ha eletto questo luogo, ombroso
e nascosto, sul ciglio di un piccolo dirupo, segnato dalla presenza
costante di una piccola pozza nera, come punto di ritrovo delle streghe.
La credenza affonda le sue radici nei secoli passati: ancora prima che
il Seicento scatenasse una vera e propria caccia sistematica alle streghe,
nel Quattrocento l’Inquisizione era all’opera nella valle,
partendo da Morbegno, dove risiedevano, nel convento di S. Antonio,
quei frati domenicani cui era stata affidata la missione di estirpare
eresie e pratiche malefiche. Il
pozzo, quindi, era uno di quei luoghi che si raccomandava di evitare
accuratamente, soprattutto dopo le sei di sera, cioè dopo quel
suono della campana dell’Ave Maria che segnava il passaggio dal
dominio della luce a quello delle ombre (Suna l’Ave Maria, gira
la stria, cioè Suona l’Ave Maria, si mette all’opera
la strega, così recita un detto assai diffuso in Valtellina).
Per sapere di più sul pozzo e su altre leggende della valle,
può essere utile consultare il libro di Serafino Vaninetti intitolato
"Il pozzo delle paure".
Visitare questi luoghi può essere l’occasione per una bella
passeggiata che parte da Morbegno e ripercorre l’antica via di
accesso alla valle, che è anche il primo tratto dell’antichissima
Via del Bitto,
fra Valtellina (Morbegno) e Valsassina (Introbio). Partiamo, dunque,
da Morbegno, a 260 metri circa. Raggiungiamo l’imbocco della strada
statale 405 della Val Gerola, staccandoci sulla destra dalla ss. 38
dello Stelvio all’altezza del primo semaforo (per chi viene da
Milano) all’ingresso di Morbegno. Non imbocchiamo, però,
la statale, ma, parcheggiata l'automobile, una più stretta stradina,
che se ne stacca subito sulla sinistra (cartello con l’indicazione
per il rifugio Trona), e che termina dopo 1,5 km. Essa, inizialmente,
ha un fondo in asfalto, poi si congiunge con la bella mulattiera che
sale dal centro di Morbegno.
Possiamo, ovviamente, anche imboccare direttamente quest’ultima;
per farlo, dobbiamo portarci al ponte sul Bitto che si trova più
a monte, dove troviamo la statua di San Giovanni Nepomucéno (cui
è dedicata anche la chiesa principale di Morbegno), posta
a sorvegliare la forra terminale della Val Gerola, per difendere il
paese dalle piene alluvionali del Bitto. Ad ovest del ponte troviamo
la traversa, in direzione del fianco del monte, del vicolo Nani, che
è anche il punto di partenza della Via del Bitto. Un cartello
della Comunità Montana Valtellina di Morbegno ci informa che
seguendo questo itinerario possiamo raggiungere in 45 minuti Campione
ed in un’ora e 15 minuti Sacco. Si tratta di tempi larghi, ma
è anche vero che questa passeggiata richiede, per essere gustata,
un passo lento.
Saliamo, dunque, lungo la mulattiera che, superate alcune baite diroccate
(m. 385), conduce, poco sopra quota 400, alla selva Maloberti, dove
si trova un’area di sosta attrezzata, che costituisce un eccellente
osservatorio su Morbegno, sulla bassa Valtellina e sulla Costiera dei
Cech. Poi, oltrepassata una fontana dove un cartello ricorda il nesso
fra pulizia e bellezza, ed intercettata, sulla nostra destra, la mulattiera
che sale da Regoledo, raggiungiamo l’ampio terrazzo di prati e
selve di castagni della località Campione (m. 580), che, alla
bellezza ed amenità dello scenario naturale, unisce un motivo
di interesse storico: qui nacque, infatti, nel 1417 la celebre figura
di Bona Lombarda, eroina della storia del quattrocento italiano. Si
trattava di una contadina di cui si innamorò il capitano Pietro
Brunoro, che militava nell’esercito del Ducato di Milano (allora
signoria dei Visconti), guidato dal capitano di ventura Niccolò
Piccinino e dal valtellinese Stefano Quadrio, esercito che aveva appena
sconfitto quello veneziano nella battaglia di Delebio (1432). I due
si sposarono nella chiesa di Sacco e la moglie seguì poi il capitano,
di origine parmense, nelle sue peregrinazioni legate alla compagnia
di ventura per la quale militava. Fin qui niente di strano: ciò
che, però, rese quasi leggendaria la figura della donna fu la
pratica delle armi, nella quale, affiancando il marito, si distinse
per coraggio e valore, tanto da farne un’eroina molto amata, soprattutto
in epoca romantica.
Bene:
dopo aver tributato il giusto omaggio al valore delle donne valtellinesi,
lasciamo alle nostre spalle anche la cappella posta a ricordo del giubileo
sacerdotale di Leone XIII, proseguendo fino ad intercettare, poco oltre
le belle baite di Campione, la strada statale della Val Gerola, che
però lasciamo subito, staccandocene sulla destra, per seguire
una pista che porta a Sacco (m. 720), il primo paese che si incontra
entrando nella valle, a 7 km da Morbegno, per chi percorre la strada
statale. Saliamo lungo la pista per una cinquantina di metri, fino a
trovare, sulla nostra destra, un ben visibile sentiero che se ne stacca,
proseguendo per un tratto in leggera discesa, poco a monte della strada
statale. Seguiamolo, fino a raggiungere una piccola radura sul ciglio
di alcune roccette, detta Belvedere. Da qui infatti, nonostante la selva
di betulle copra in parte la visuale, possiamo scorgere la parte terminale
della bassa Valtellina e l’alto Lario. Buona è anche la
visuale sulla Costiera dei Cech.
Il luogo è luminoso ed ameno, ma alle nostre spalle si apre una
sorta di corridoio o valloncello, che conduce nel cuore ombroso della
selva. Il sentiero, piegando a sinistra, lo risale, con traccia poco
marcata, passando in mezzo a due modeste elevazioni, che culminano in
altrettanto modeste formazioni rocciose. Superata l’elevazione
di sinistra, pieghiamo leggermente a destra, fino a raggiungere il ciglio
posto a monte di una evidente conca o avvallamento, e caratterizzato
dalla presenza di modeste roccette affioranti dal sottobosco. Seguendo,
raggiungeremo la roccia più grande, con la conca che raccoglie
l’acqua piovana. Un cartello ci confermerà che questo è
il Puz di Strii.
Torniamo,
però, ora sulla pista per Sacco: questa, oltrepassata una cappelletta
dove resta traccia di un dipinto della deposizione di Cristo, posta
fra la selva dove si trova il pozzo (che resta a monte, alla nostra
destra), ed i prati della Morata (che si stendono alla nostra sinistra,
sopra la strada statale), ci porta al cimitero di Sacco, dal quale,
in breve, siamo alla centrale piazza di san Lorenzo, dove troviamo l’omonima
chiesa parrocchiale, dall’elegante facciata barocca. Fra le leggende
del mondo contadino di cui qui possiamo trovare traccia vi è
anche quella, famosa, dell’homo
salvadego, figura irsuta di uomo solitario rappresentato con una
clava in mano, pronto a rispondere ai torti altrui non con la violenza,
ma con la semplice paura legata alla sua apparenza selvaggia. In lui
si condensano vari temi, e soprattutto quelli del pastore inselvatichito
dalla solitudine protratta e di una sorta di buon selvaggio, cioè
di uomo che, recuperando una dimensione del tutto naturale, non chiede
altro che di essere lasciato in pace e non ama affatto la violenza.
Il museo dell’homo salvadego, che si trova nel paese, è
proprio dedicato a questa singolare figura.
Se desideriamo prolungare questo incontro avvicinato con la Val Gerola
della storia e della leggenda, possiamo proseguire l’escursione
con una lunga ed affascinante traversata che ci porta nel cuore delle
due valli del Bitto (quella di Gerola, appunto, e quella di Albaredo),
passando per Bema, incantevole paese posto sulla parte inferiore del
lungo dosso che separa le valli stesse. Si tratta di una traversata
che richiede complessivamente, dalla partenza al ritorno a Morbegno,
circa 5 ore di cammino, ed il superamento di un dislivello in salita
di circa 720 metri.
Per effettuarla, dobbiamo riportarci, dal centro di Sacco, alla statale
405, scendendo sulla via di accesso al paese, per poi lasciarla subito,
imboccando la stradina che, correndo più a valle rispetto alla
statale, conduce alla località il Dosso (m. 677), e prosegue
in direzione del solco della valle del torrente Il Fiume, che viene
superato su un ponte in corrispondenza della cascata della Püla.
Subito
dopo il ponte, sulla sinistra, troviamo il Museo etnografico Vanseraf,
ricavato dalla ristrutturazione dell’antico Mulino del Dosso.
Superato un tratto di più marcata salita, raggiungiamo, quindi,
Rasura, passando proprio sotto il cimitero e l’imponente campanile
della chiesa parrocchiale di S. Giacomo (m. 762), di origine medievale
(anche se l’attuale edificio è l’esito di una ristrutturazione
iniziata nel 1610).
Non dobbiamo salire al paese, ma, proprio sotto la chiesa, prestare
attenzione ad un cartello che indica la partenza, sulla sinistra, del
sentiero che scende al Ponte della Sorte (Punt de la Sort). Imbocchiamo
il sentiero e cominciamo a scendere, in un ombroso bosco di castagni,
superando qualche rudere di baita ed inanellando diversi tornantini.
Intercettiamo anche, sulla sinistra, il sentiero che parte dal Dosso
(e che non è facile da trovare, per cui è meglio iniziare
la discesa da Radura). Dobbiamo perdere quasi 300 metri di quota, e,
nell’ultimo tratto, cominciamo a sentire il rumore delle acque
del Bitto, che corrono nella profonda gola del fondovalle.
Al termine della discesa, ecco il ponte, a 475 metri, gettato proprio
nel punto in cui le due sponde della valle, rinserrata fra orride muraglie
di roccia, si avvicinano. Lo spettacolo è davvero affascinante,
ed il nome del ponte evoca gli arcani e misteriosi dettami del fato,
nascosti agli uomini come è nascosto lo spettacolo del cuore
oscuro di questa valle. In passato, per la verità, questo ponte
era assai più frequentato, perché di qui passava la più
facile via di passaggio fra la bassa Val Gerola ed il dosso di Bema.
Pochi passi, e siamo sul fianco occidentale del dosso: il sentiero prosegue
con un tratto verso destra, cui segue un ultimo tratto verso sinistra.
Al termine la traccia confluisce nella nuova strada asfaltata, ancora
chiusa al traffico, tracciata dopo la rovinosa alluvione del 2000, per
sostituire quella che raggiunge Bema correndo sul lato opposto (orientale)
del dosso. Seguendola (oppure seguendo il sentiero, di cui troviamo,
poco sopra, la ripartenza) cominciamo la salita che si conclude alle
prime case di Bema (m. 793).
Salendo,
sostiamo, di quando in quando, per ammirare gli scenari unici che ci
si offrono al nostro sguardo. Se guardiamo verso sud, cioè in
direzione della media ed alta Val Gerola, vedremo apparire una parte
della testata, con l’inconfondibile profilo del pizzo di Tornella
e, alla sua destra, le forme simmetriche del pizzo di Trona. Ma ancor
più interessante è quello che appare in direzione ovest
e sud-ovest: si mostra il pauroso e scuro fianco della valle (e ci domandiamo
come abbiamo potuto scenderlo interamente), mentre alla sua sommità
fa capolino, come sentinella posta ai limiti di questo regno delle ombre,
il campanile della chiesa di Rasura. Spostiamo lo sguardo a sinistra,
in direzione sud-ovest: distingueremo, sull’aspro fianco della
valle, alcuni prati che scendono arditamente verso la sua forra, con
qualche baita che sembra sospesa sulla vertigine: si tratta dei prati
della località Scacciadiavoli (m. 630), a valle della pista che
congiunge Rasura a Pedesina. La denominazione dei prati ha un significato
inequivocabile, ed esorcizza la paura di quegli spiriti maligni che
la valle del Bitto sembra sempre poter vomitare dal suo cuore oscuro.
Se guardiamo a nord, infine, ci appaiono, sulla solare Costiera dei
Cech (che genera un singolare contrasto con la valle del Bitto), le
sue più importanti cime, vale a dire la cima di Malvedello e,
alla sua sinistra, il monte Sciesa.
Ma è tempo di riprendere il cammino, alla volta di Bema, paese
quasi unico per la sua posizione isolata, di difficile accesso, ma anche
per la sua collocazione climaticamente e panoramicamente assai felice,
che giustifica l’antichità dell’insediamento. Ci
accoglie la bella chiesa di San Bartolomeo, di origine medievale, ma
profondamente ristrutturata a partire dal secolo XVII. Il centro del
paese, con le case l’una a ridosso dell’altra, ci regala
quell’inesprimibile sapore d’antico che contribuire a cacciare
dalla mente i tetri pensieri legati alle forze oscure ed alla loro permanente
minaccia. Da Bema partono due piste che percorrono entrambi i fianchi
del lungo dosso; è anche possibile salire alla vetta del pizzo
Berro, la cima che domina il paese.
Vale
la pena di offrire un sintetico resoconto su questa ascensione, anche
se si tratta di un’escursione a parte, da effettuare raggiungendo
Bema in automobile (e tenendo presente che la strada è aperta
solo nelle fasce orarie 7.00-8.30, 12.00-14.30 e 17.30-19.00). Lasciata
l’automobile nel parcheggio che si trova all’ingresso del
paese, proseguiamo sulla mulattiera che risale decisa il dosso sul quale
è posto il paese. Dopo un breve tratto incontriamo una grande
croce, posta a ricordo del Convegno Eucaristico Diocesano del 1997.
Saliamo ancora e, superate alcune baite, ci rincongiungiamo alle due
strade asfaltate che salgono dal paese. Proseguiamo sulla pista, fino
a raggiungere il rifugio Ronchi,
a 1200 metri circa. A questo punto, per salire al pizzo Berro ci sono
due possibilità: la più facile segue il sentiero che parte
più avanti e passa per la località Fracino; poco oltre
il rifugio, si trova, invece, il sentiero della costa, ben segnalato
da molti cartellini gialli sui tronchi degli alberi. Dopo una lunga
diagonale in una bella pineta, questo secondo sentiero conduce alla
località Pozzalle, a circa 1500 metri. Qui si trovano un tavolino,
un’altalena ed un’amaca, l’ideale per una sosta riposante.
Il sentiero riprende, più ripido ed un po’ esposto, verso
la località Curt, piccolo poggio panoramico da cui è ben
visibile la bocchetta di Stavello, in alta val di Pai. Da qui parte
il sentiero Lino, che nel primo ripido tratto presenta un passo un po’
ostico, servito da due corde fisse. Superato il primo tratto, la salita
prosegue, seguendo il crinale, alla volta della croce della vetta, dedicata
a Paolo Bozzetti e posta a m. 1847: la raggiungiamo con un ultimo sforzo,
appena usciti dalla macchia.
Lo
spettacolo dal pizzo è veramente ampio: ad ovest lo sguardo raggiunge
le Alpi Lepontine, mentre a nord ovest domina la costiera dei Cech.
A nord, si può ammirare, a destra della cima del Desenigo, buona
parte della testata della val Masino: si scorgono i pizzi Badile e Cengalo,
sono ben visibili i pizzi del Ferro, la cima di Zocca e di Castello,
la punta Rasica ed i pizzi Torrone. Chiude la testata l’imponente
monte Disgrazia. Mancano all’appello le cime più alte della
Valmalenco, ma è ben visibile il pizzo Scalino. Ad est si mostrano
il monte Lago e, alla sua destra, i monti Pedena ed Azzarini, fra i
quali si trova il passo di Pedena, che unisce la val Budria alla valle
del Bitto di Albaredo. A destra del passo di Pedena si vede il più
famoso passo di san Marco. A sud ovest si può ammirare la testata
della val Gerola, nella quale spicca il pizzo di Trona e, a destra,
la bocchetta omonima. Verso ovest, infine, si vedono le cime del versante
occidentale della val Gerola, a partire dal pizzo dei Galli e dal pizzo
Olano. La salita da Bema al pizzo richiede circa tre ore di cammino,
per superare poco più di 1000 metri di dislivello.
Torniamo, ora a Bema, per chiudere la traversata. Non abbiamo altra
possibilità, se non vogliamo tornare per la medesima via, che
quella di seguire la strada asfaltata che scende sul fianco orientale
del dosso, conduce al ponte sul Bitto di Albaredo, posto a 437 metri,
e si congiunge con la provinciale Morbegno-Albaredo-Passo S. Marco.
La discesa è un po’ monotona, ma ci permette di osservare
attentamente i fianchi non meno selvaggi e dirupati della bassa valle
del Bitto di Albaredo. Percorrendo
i 7,5 km che portano da Bema al punto in cui la strada si congiunge
con la provinciale per S. Marco possiamo, in particolare, osservare
il punto di congiunzione fra le due valli del Bitto, punto in cui il
dosso di Bema si assottiglia fino a diventare uno sperone roccioso,
che precipita nel fondovalle. Raggiunta la provinciale per il passo
di S. Marco, affrontiamo l’ultimo tratto della discesa a Morbegno.
Invece di seguire la strada per il rimanente chilometro e mezzo, imbocchiamo
la segnalata via Priula, che se ne stacca sulla sinistra e, tagliando
in un paio di punti la strada, cala poi direttamente sulla parte alta
del paese. Nell’ultimo suggestivo tratto la mulattiera corre fra
due alte mura, fino alla porta terminale, che si affaccia sulla via
San Marco. Termina così, con questa nuova immersione nella storia,
una faticosa ma indimenticabile camminata.