|
Alta Via della Valmalenco
Il sentiero che percorre in otto tappe i luoghi
più belli della Valmalenco nel cuore delle Alpi Retiche
1a
Tappa - Da Torre S. Maria al rifugio Bosio
Alta Via della Valmalenco, cioè una lunga traversata,
in otto giorni, dell'intera compagine montuosa della valle, che interessa
il gruppo del Disgrazia, quello del Bernina e quello dello Scalino, con
un percorso che, dalla seconda tappa, si mantiene quasi sempre al di sopra
della quota dei 2000 metri. Un percorso che si è affermato di diritto
fra quelli classici nel cuore delle Alpi Retiche, un'esperienza alla portata
di tutti (purché ci sia un'adeguata preparazione fisica), da vivere
anche scaglionata in diversi periodi, perché le singole tappe possono
essere percorse autonomamente. L'alta via descrive un arco molto ampio
(ha uno sviluppo di oltre 100 km), che parte da Torre S. Maria ed arriva
a Caspoggio. Saliamo dunque a Torre e lasciamo la bella chiesa alla nostra
destra; seguendo le indicazioni per i rifugi alpini, imbocchiamo, sulla
sinistra, la stradina che ci porta alla località Piasci. Qui si
trova l'indicazione del punto di partenza del sentiero (quel triangolo
giallo che accompagna, come una guida che rallegra sempre lo sguardo,
l'intero itinerario) che, con una traccia non sempre marcata, ma ben visibile,
sale ripido nel bosco e, oltrepassata una bella cappelletta, raggiunge
l'alpe di Pra' Fedugno, a 1607 metri. Dall'alpe un sentiero più
marcato sale ad intercettare la strada sterrata che porta alla località
Piasci, dove si trova il rifugio
Cometti (m.1720). Volendo si può salire da Torre anche seguendo
questa strada, assai meno ripida, ma anche molto più lunga. Dai
Piasci, seguendo il sentiero segnalato che parte proprio nei pressi del
rifugio Cometti, si prosegue in direzione dell'alpe di Arcoglio inferiore,
verso sud-ovest (la si può raggiungere anche seguendo a ritroso
la strada sterrata, fino ad un bivio, al quale si prende a destra, in
salita, fino a raggiungere una piazzola, dalla quale parte un tratturo
che sale, molto ripido, all'alpe). Da qui si sale, in breve, all'alpe
di Arcoglio superiore, a guardia della quale è posta una bella
chiesetta (m.2123), oltre la quale si disegnano, lontane, le cime della
testata della valle, con le quali l'alta via ci permetterà di avere
un incontro più ravvicinato. Lo scenario dell'alpe è assai
gentile, ed anche se percorreremo il sentiero fuori stagione troveremo
probabilmente qualche presenza che non ci farà sentire troppo soli.
Sempre seguendo i triangoli gialli proseguiamo nella salita, guadagnando
l'ultimo gradino roccioso dove ci attende la prima sorpresa del nostro
itinerario: inatteso, appare il bellissimo laghetto di Arcoglio (m.2234,
foto a destra), adagiato su un balcone che fronteggia, sul lato opposto
della valle, il gruppo Scalino-Painale. Di fronte al nostro sguardo è
visibile l'intero percorso che dovremo compiere durante l'ottava ed ultima
tappa, dal rifugio Cristina a Caspoggio. Lasciato il laghetto alla nostra
sinistra, cerchiamo i segnavia che ci indirizzano ad una traccia di sentiero
a tratti poco visibile. I segnavia ci fanno compiere un ampio arco che
ci porta sul crinale fra l'alpe di Arcoglio e l'alpe Colina, in corrispondenza
di una piccola sella erbosa. La traccia prosegue verso destra salendo
sul fianco del Sasso Bianco e raggiungendone facilmente la cima. E'
però possibile seguire un itinerario più breve, che si stacca
da quello segnalato per guadagnare facilmente la bocchetta posta sul crinale
che separa l'alpe di Arcoglio dalla val Torreggio. La bocchetta è
facilmente individuabile perché si trova subito a destra del Sasso
Bianco, cima che a sua volta si riconosce facilmente per il colore delle
rocce che la costituiscono. Il laghetto rimane ancora ben visibile allo
sguardo, mentre ci dirigiamo verso sinistra, puntando alla cima arrotondata
del Sasso Bianco (m.2490), che si raggiunge senza problemi seguendone
il crinale sud-orientale. L'immagine invernale della cima non permette
di comprendere il motivo della sua denominazione. Se però lo raggiungiamo
quando la neve ha abbandonato la sua morsa sulle rocce, ne potremo ammirare
il colore biancastro. Dietro il piccolo ometto posto sulla cima si staglia
la severa e sassosa valle Airale, prolungamento della val Torreggio; sul
crinale che la separa dalla valle di Preda Rossa si riconosce il passo
di Corna Rossa, sul quale è posto il rifugio
Desio, permanentemente chiuso in quanto pericolante. Dalla cima possiamo
dominare anche l'intera testata della Valmalenco, e l'intera catena orobica.
La singolarità di questo monte non finisce qui: pochi metri sotto
la vetta si può vedere una singolare cavità, detta "truna",
legata a diverse leggende popolari. Si
tratta di una spaccatura nella roccia biancastra, che sembra penetrare
nelle viscere della montagna e di cui l'occhio non riesce a raggiungere
il fondo. Non c'è da stupirsi, dunque, se la fantasia popolare
vi ha visto una di quelle terrificanti porte degli inferi di cui si servono
le potenze malefiche per infestare questo nostro mondo. Se, infine, guardiamo
ad ovest, potremo seguire il disegno del crinale che separa la val Torreggio,
nella quale dovremo scendere, dall'alta alpe Colina, sul versante retico
della media Valtellina. Una variante di questa prima tappa dell'alta via
sale proprio da questa alpe, che si raggiunge facilmente con una carrozzabile
che da Sondrio sale a Triangia e prosegue fino all'alpe. Dall'alpe, invece,
il sentiero è meno evidente: con un po' di attenzione, però,
si può intercettare, nella parte alta del crinale, la traccia che,
con una diagonale verso destra, sale alla bocchetta denominata Colma di
Zana (m. 2417), che immette nella val Torreggio.
Alla medesima bocchetta scende il nostro itinerario: lasciata, infatti,
la cima del Sasso Bianco ci dirigiamo verso nord-ovest, passiamo poco
a destra della bocchetta.
Ci
aspetteremmo di intraprendere subito una decisa discesa nella val Torreggio,
il cui fianco settentrionale di dispiega di fronte al nostro sguardo:
il declivio del fianco meridionale, sul quale ci troviamo, è infatti
assai dolce, e le balze di pascoli e roccette sembrano invitare a scendere.
Invece ci attende una traversata piuttosto lunga, che ci farà raggiungere
il rifugio Bosio solo dopo
aver descritto un ampio arco. Dalla colma di Zana seguiamo per un buon
tratto, in leggera salita, il crinale, poi ce ne stacchiamo scendendo
ad una conca, per poi risalire ad una piccola sella posta a destra di
una cima costituita da rocce rotte. Oltre la sella ci attende una nuova
discesa ad una più ampia conca, raggiunta la quale dobbiamo per
un'ultima volta intraprendere una salita, che ci conduce ad una porta
(vedi foto sopra) che ci permette di superare il crinale che scende dal
monte Caldenno (m.2669). Questi saliscendi ci impongono il superamento
di un dislivello in salita di circa centocinquanta metri. La porta, infatti,
è collocata quasi alla medesima altezza della cima del Sasso Bianco.
Oltre la porta inizia l'ultima discesa, inizialmente su un terreno disseminato
di grandi massi: stanchi come siamo, questo supplemento di attenzione
e di tormento per i nostri piedi non ci rallegra di certo! Poi i massi
lasciano il posto ai magri pascoli, che ci permettono una discesa più
riposante. Il
tracciato tende all'inizio leggermente a sinistra, per poi piegare a destra,
superare un torrentello ed intercettare il sentiero che scende dal passo
di Caldenno, che congiunge la val Torreggio alla valle di Postalesio.
Raggiungiamo così un bel pianoro dove è collocata una grande
baita. L'ulteriore discesa ci permette di superare gli ultimi cento metri,
raggiungendo il piano dell'alta val Torreggio, dove, in uno scenario ingentilito
da radi larici e dai meandri di un quieto torrente, si trova il rifugio
Bosio, a 2086 metri. Qui, dopo circa 8 ore di cammino ed un dislivello
in salita di oltre 1600 metri, termina la prima tappa dell'alta via. Per
il resoconto sulla seconda, apri la relativa presentazione.
Questa prima e lunga tappa può essere effettuata con un'interessante
variante, non segnalata, che ha il duplice pregio di permetterci un incontro
con il bellissimo laghetto di Zana e di farci risparmiare tre quarti d'ora
circa di cammino. Dalla colma di Zana, invece di proseguire sul crinale,
possiamo scendere sul facile declivio di balze e roccette, fino a raggiungere
la quota di circa 2260-2280 metri. Se guardiamo con attenzione, troveremo
alcuni triangoli rossi, che ci permettono di individuare una traccia di
sentiero discontinua, che piega a sinistra e, con un tracciato pressoché
pianeggiante, ci porta al laghetto di Zana, nascosto in una conca della
valle omonima. I luoghi che attraversiamo sono dolci e riposanti. Di
fronte a noi, se la giornata è buona, si disegna l'imponente scenario
del rosseggiante versante di sud-est del monte Disgrazia, occupato, in
parte, dal ghiacciaio della Cassandra. Un po' più a destra si mostrano
in primo piano i severi corni di Airale (m.2614), che sembrano incombere
sull'alpe omonima, posta a poca distanza dal rifugio Bosio. Seguendo i
triangoli rossi oltre il laghetto di Zana, scendiamo in breve al pianoro
sopra citato, dove si trova la grande baita e dove incontriamo il sentiero
dell'alta Via che scende dall'ultimo vallone meridionale dell'alta val
Torreggio.
|
|
Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 1600 |
Tempo |
8 h |
|
(una
versione Powerpoint della suddetta relazione è
disponibile richiedendola via e-mail all'autore)
|
Cartina
Kompass n. 93 (Bernina-Sondrio) |
Testo e fotografie a cura di M.
Dei Cas |
2a
Tappa - Dal rifugio Bosio ai rifugi Gerli-Porro o Ventina, per il passo
di Ventina
La piana dell'alta val Torreggio è caratterizzata
dalla presenza di alcuni grandi massi, fra i quali il Torreggio scorre
placidamente. Sul fondo della valle, là dove inizia la più
aspra e sassosa val Airale, sono invece i severi Corni Bruciati a connotare
il paesaggio. Da qui parte la seconda tappa, e da qui in poi l'alta via,
fino a tutta la settima tappa, cioè fino al rifugio Cristina, coincide
con il Sentiero Italia Lombardia nord, che scende alla Bosio dal passo
di Corna Rossa.
La seconda giornata comincia, dunque, dal rifugio Bosio, lasciato il quale
varchiamo il torrente Torreggio su un bel ponte, posato dai cacciatori
nel 2000. Ci ritroviamo così sul lato sinistro della valle, dove
partono tre sentieri: uno si dirige ad ovest, verso la val Airale ed il
passo di Corna Rossa, che permette di scendere in valle di Preda Rossa
(Val Masino). Un secondo prende la direzione opposta e conduce, dopo una
lunga traversata sul fianco sinistro della valle, all'alpe Lago di Chiesa,
dalla quale una comoda carrozzabile scende a Chiesa in Valmalenco. L'alta
via della Valmalenco segue però un terzo tracciato che, in corrispondenza
dell'alpe Airale (m. 2097), comincia a salire gradualmente sul fianco
montuoso, in direzione est-nord-est, per poi assumere un andamento pianeggiante
e scendere ai 2077 metri dell'alpe Mastabia, posta su un bel dosso panoramico.
All'alpe sale anche un sentiero che proviene dall'alpe Lago.
Proseguiamo sul fianco occidentale della Valmalenco, alternando tratti
nel bosco ad altri in cui si attraversano corpi franosi e pascoli. Superate
alcune cave di talco abbandonate, scendiamo di oltre duecento metri, raggiungendo
il filo di un largo dosso, che ci introduce all'alpe Giumellino (m. 1756).
La discesa prosegue nel bosco, piegando però verso destra (est
ed est-nord-est) ed oltrepassando alcune cave di pietra ollare.
Raggiungiamo così i 1619 metri dell'alpe Pirlo, dove si trova un
microlaghetto-sorgente, in un ambiente bucolico. Dopo un tratto in leggera
salita, che conduce all'alpe Prato (m. 1629), ricominciamo a salire nel
bosco, con una diagonale verso destra che ci porta ad intercettare il
sentiero che proviene da Primolo (sopra Chiesa Valmalenco) e sale, da
destra, all'alpe Pradaccio (m. 1720). L'alpe Pradaccio è un luogo
ideale per una sosta, quanto mai opportuna, visto che ci attende la faticosa
salita del grande canalone di Sassersa, che si presenta imponente di fronte
al nostro sguardo. Abbiamo percorso un lungo tratto, ma, probabilmente
con un po' di disappunto, dobbiamo constatare di non aver guadagnato quota,
ed anzi di avere perso più di 350 metri rispetto al punto di partenza.
I prati dell’alpe Pradaccio si stendono su un ampio pianoro, circondato
da un selvaggio versante montuoso, occupato, sulla sinistra, da una massa
sterminata di sfasciumi, sormontati dalle rocce frastagliate della cresta
di Primolo. Ciò che maggiormente colpisce, però, è
il canalone che scende all’alpe più a sinistra, anch’esso
in gran parte occupato da sfasciumi. Si tratta del vallone di Sassersa,
che sfrutteremo per salire ai laghetti.
Il terreno sembra, da qui, piuttosto difficoltoso, ma in realtà
un buon sentiero renderà la salita meno ostica (anche se la pendenza
non darà respiro). All’ingresso dell’alpe ci accoglie
un cartello dell’Alta Via della Valmalenco che dà i laghetti
di Sassersa a due ore (e ci vogliono tutte), il passo Ventina a 3 ore
e l’alpe Ventina a 4 ore e 30 minuti. Poco più avanti, un
secondo cartella segnala la deviazione a destra (che ignoriamo) per l’alpe
Braccia, dalla quale si può ridiscendere a Primolo (si tratta del
sentiero che abbiamo incontrato ed ignorato percorrendo la pista sterrata
oltre il parcheggio di Primolo). Un secondo cartello, che segnala il sentiero
numerato 301 (il nostro), dà il laghetti ad un’ora e 50 minuti,
il passo Ventina a 2 ore e 50 minuti e Chiareggio a 5 ore e 10 minuti.
Proseguiamo sul sentiero che corre alle spalle delle tre baite dell’alpe,
attraversando poi una macchia di pini mughi, in direzione del vallone
(nord).
Superata una radura ed una nuova macchia, eccoci al punto in cui inizia
la salita vera e propria. Un invito eloquente, scritto a grandi caratteri
su un masso (“Forza!”) ci fa capire ci stiamo infilando nella
parte più faticosa dell’escursione. Il sentiero, con fondo
sempre buono, sale, zigzagando, fra i pini mughi, che ci fanno simpatica
compagnia, portandosi a ridosso del fianco roccioso di destra (per noi)
del vallone, dove alcune formazioni rocciose con placche nerastre sembrano
osservarci meno amichevolmente. I segnavia sono assai abbondanti, e di
diverso tipo: triangoli gialli, bandierine bianco-rosse e rosso-bianco-rosse.
A quota 1960 metri, troviamo, proprio in mezzo al sentiero, una sorta
di sasso della memoria, sul quale diverse persone hanno inciso qualcosa
che vorrebbe essere una traccia del loro passaggio.
È, questo, anche un punto di svolta, perché il sentiero
piega leggermente a sinistra e cominciamo ad incontrare le prime fasce
di massi (fra le quali, comunque, la traccia di districa sempre elegantemente).
Lasciamo, quindi, i roccioni del fianco destro del vallone e ci portiamo
verso il suo centro. In questa sezione intercettiamo un sentiero che ci
raggiunge da sinistra: si tratta di una variante più diretta della
seconda tappa dell’Alta Via, che giunge qui dall’alpe Giumellini
(o Giumellino). Ne possiamo seguire visivamente il percorso: scende, sulla
nostra sinistra, nel vallone da un promontorio boscoso ed effettua una
diagonale fra i massi,
fino al punto nel quale siamo.
Raggiungiamo, dunque, il centro del vallone, dove sentiamo il torrentello
scorrere sotto i grandi massi (lo vedremo solo più in alto), e,
lasciandolo alla nostra sinistra, riprendiamo a salire, zig-zagando fra
qualche raro lembo di pascolo, terriccio e sassi. Dopo esserci avvicinati
ad una nuova macchia di pini mughi, sulla nostra destra, pieghiamo ancora
a sinistra e, a quota 2060, raggiungiamo il centro del vallone, scavalcando
il corso d’acqua (che qui si vede) e portandoci sul lato opposto
(sinistro), dove la salita riprende. La soglia terminale del vallone sembra
ormai lì, a portata di mano, ma, quando, dopo aver versato copiose
gocce di sudore, la raggiungiamo, a quota 2180, ci accorgiamo che non
è così: c’è da attraversare, ancora, un largo
corridoio, che si va gradualmente restringendo fino ad una porta finale.
Unica consolazione: la pendenza si fa meno severa. Raggiungiamo quasi
subito una modesta pianetta, a quota 2200, luogo ideale per una sosta:
alla nostra destra gorgoglia il torrente, al quale possiamo rinfrescarci,
se la calura infierisce. Nella sosta, guardiamo alle nostre spalle, in
direzione est: distingueremo, dietro il versante che separa la media Valmalenco
dalla Val di Togno, da sinistra, il pizzo Scalino, la punta Painale, la
vetta di Ron ed il monte Calighè.
Il sentiero piega, ora, decisamente a sinistra, in corrispondenza di un
grande ometto e di un ricovero ricavato sotto un enorme masso. A proposito
di ricovero: teniamo presente che questi luoghi ne offrono ben pochi,
e sono anche battuti da fulmini, per cui è assai imprudente avventurarsi
in escursioni quando le previsioni meteorologiche non assicurano tempo
stabile. Il sentiero guadagna quota sul fianco sinistro del vallone, portandosi,
a quota 2270 metri, a ridosso delle formazioni rocciose che lo delimitano
(dove troviamo anche la scritta “Al passo poi… c.na Porro),
prima di puntare alla sua soglia terminale. Qui appare, all’improvviso,
il severo, corrugato e slanciato profilo del pizzo Rachele (m. 2998),
sdegnato ed imbronciato, parrebbe, forse per quei due soli metri che lo
tengono al di sotto della soglia dei Tremila, o per quel nome femminile,
attribuitogli dai primi scalatori che pensarono a qualche gentildonna
loro cara, nome che mal si adatta al suo corrucciato aspetto. Alla sua
sinistra, la cima quotata 2923.
Varchiamo la soglia. Il più basso dei laghetti di Sassersa (m.
2368) non si vede ancora, ma è questione di poco: la traccia piega
leggermente a sinistra, evitando i massi più ostici, e ci porta,
in breve, proprio alla sua riva orientale. Non fermiamoci qui: seguiamo
i segnavia che passano a destra del laghetto e guadagniamo un po’
di quota, per poterlo osservare nella sua interezza. Se la giornata è
buona, ci regalerà uno splendido sorriso di un blu intenso, con
un singolare effetto di contrasto rispetto all’atmosfera complessiva
della Val Sassersa, che ha nel suo stesso nome il carattere inquietante
di un luogo misterioso, legato forse a qualche espiazione tremenda. Sassersa,
da sasso arso: qui è un trionfo delle tonalità rossastre,
color ocra, mattone, ruggine. Come se un antichissimo incendio fosse divampato,
bruciando e sbriciolando in una miriade di massi i versanti rocciosi.
Ma le cose non sono così semplici. Il fuoco non è solo divampato,
ma ha dovuto anche combattere una sua battaglia, contro un nemico segreto.
Non ovunque ha vinto. Il versante che chiude l’orizzonte alla nostra
sinistra (sud), infatti, si sottrae al dominio cromatico delle rocce ad
ovest e a nord. Uno sguardo alla carta, e ci accorgiamo che questo versante
ospita, a sinistra del pizzo Giumellino (m. 3094), il monte dell’Amianto
(m.2959): ecco spiegato il mistero della lotta che il fuoco stesso ha
dovuto ingaggiare, contro un nemico invincibile.
Vale
la pena, ora, di effettuare un fuori-programma che richiede non più
di trenta minuti, ampiamente ripagati dagli scenari spettacolari che ci
propone. Lasciamo, quindi, il percorso dell’Alta Via, che punta
al passo ventina (m. 2675), già ben visibile, dal laghetto, guardando
verso nord-ovest (si tratta di una marcata, per quanto breve, depressione,
riconoscibile per il gendarme di roccia che la presidia alla sua destra).
Lo lasciamo per andare a scovare gli altri due laghetti di Sassersa. Si
tratta, infatti, di un sistema di tre laghetti di origine glaciale, con
disposizione a rosario (il più basso riceve le acque del più
alto).
Prima di visitare il laghetto medio e quello superiore, vediamo di capire
come si sono formati. Tutto iniziò nell’era quaternaria,
cioè nell’ultima era geologica, iniziata forse 1.800.000
di anni fa. Iniziò con una grande glaciazione, che coinvolse tutta
la catena alpina. Il ghiaccio ricopriva ogni cosa, fino ad una quota superiore
ai 2.500 metri, ed i ghiacciai si estendevano fino alla Brianza. Immaginiamo
lo scenario spettrale: una coltre bianca ed immobile, dalla quale emergevano,
come grandi isolotti di roccia, le cime medio-alte della valle, formando
una sorta di arcipelago frastagliato, un dedalo di percorsi fra ghiaccio
e roccia. L’azione di questo enorme ghiacciaio, lenta, inesorabile,
scandita da ritmi difficilmente immaginabili, nell’arco di migliaia
di anni, cominciò a modellare le rocce sottostanti, scavando e
levigando. Fu un’azione che si esercitò in quattro grandi
momenti: tante furono, infatti, le successive glaciazioni (la quarta ebbe
inizio 40.000 anni fa), prima dell’ultimo e definitivo ritiro dei
ghiacci. Ritiro che lasciò, in alcune conche scavate dai ghiacciai,
buona parte dei laghetti alpini di quota medio-alta.
Possiamo, ora, incamminarci verso gli altri due laghetti. Il cammino sarà
breve e facile. Seguiamo, per un brevissimo tratto, l’Alta
Via, fino al masso che segnala il bivio: proseguendo diritti si va al
passo di Ventina, piegando a sinistra si va ai laghetti di Sassersa. Prendiamo,
dunque, a sinistra (direzione sud), restando sempre poco alti rispetto
al primo laghetto e seguendo qualche raro bollo rosso (se non li vediamo,
possiamo anche procedere a vista, senza particolari problemi). Ora siamo
soli: gli escursionisti che percorrono l’Alta Via, non rari, nel
cuore della stagione, non ci seguono. In pochi minuti, descrivendo un
breve arco, raggiungiamo le formazioni rocciose che separano la conca
del lago più basso da quella del lago di mezzo (m. 2391). Questo
appare, d’improvviso, e ci lascia senza fiato. Il luogo è
quasi surreale. La sponda opposta, in particolare (quella di sud-ovest),
è occupata da una formazione di rocce levigate, solcata da una
serie di incisioni bizzarre, che danno l’impressione di una scritta
nei caratteri di un alfabeto sconosciuto. Le acque del lago replicano
quella scritta, con un effetto di grande suggestione. Camminiamo ancora
un po’, percorrendo parte della riva sinistra del lago, e portandoci
qualche metro più in alto, per vederlo nella sua forma complessiva.
Se il sole lascerà cadere i suoi raggi su questo luogo, accadrà
qualcosa di veramente singolare. Le acque sembrano scomparire, lasciando
il posto ad uno specchio nel quale si immergono, in un bagno di luce,
i massi del versante montuoso che ci sta di fronte (che scende, verso
est, dal pizzo Rachele). L’alto ed il basso si richiamano, dall’alto
la roccia sembra scendere ad immergersi e dal basso una roccia rinnovata
dalla luce sembra risalire al respiro della solitudine. Sublime.
Ma un laghetto manca all’appello, quello superiore (m. 2400). Se
ne sta, nascosto, dietro il bastione di rocce arrotondate sulle quali
è scolpita l’enigmatica scritta. Forse perché è
il meno accattivante. Ma andiamo a vederlo. Bastano pochi minuti di cammino:
percorriamo la riva sinistra del lago di mezzo, poi cominciamo a salire,
sempre verso sinistra. Ci affacciamo alla conca superiore, che ospita
il laghetto, di forma circolare. Se il sole lo bacia, ci regala un sorriso
di un azzurro intenso. Altrimenti se ne rimane corrucciato, stretto contro
il fianco della montagna.
Torniamo, ora, sui nostri passi, e rientriamo sul percorso dell'Alta Via.
Si tratta di superare gli ultimi trecento metri, disegnando un arco che
ci porta sul lato sinistro (per noi) della valle. Il lato opposto esalta
l'impressione di inquietudine suscitata da questo luogo unico nel pur
vasto repertorio di colori e suggestioni offerto da questa maratona fra
le montagne di Valmalenco. Sembra un luogo surreale, soprattutto se lo
poniamo a confronto con i ben più familiari profili delle cime
del gruppo Scalino-Painale, ben visibili sullo sfondo.
Ma anche da questo luogo di metafisica segregazione emergiamo, dopo aver
pagato un abbondante tributo di sudore.
Eccolo, il panorama che l'espiazione ci ha meritato, lo scenario che si
apre davanti a noi raggiunti i 2675 metri del passo Ventina (sulla sinistra
nel crinale terminale della val Sassersa, riconoscibile per il caratteristico
ago roccioso che lo presidia). Da passo a passo: lo sguardo, con un volo,
raggiunge subito il passo del Muretto che, al termine dell'omonima valle,
porta in Svizzera. E poi, alla sua sinistra, l'elegante piramide del monte
del Forno. E ancora, più a sinistra, il pronunciato profilo della
cima di Vazzeda. Il primo tratto della discesa in val Ventina è
piuttosto ripido, ma ci viene risparmiato il tormento del faticoso passaggio
di masso in masso, in quanto una traccia con fondo in terriccio e rapidi
slalom ci permette di perdere rapidamente quota.
Dopo il primo tratto di discesa ci troviamo di fronte un nevaietto, che
i segnavia ci suggeriscono di oltrepassare seguendo il suo
lato sinistro: qui, per un tratto, dobbiamo rassegnarci ad un nuovo percorso
fra i massi. Raggiunto il limite inferiore del nevaio, un grande segnavia
ci indica dove possiamo ritrovare la traccia del sentiero, che prosegue
con pendenza meno severa, scendendo presso il filo di una grande morena.
Il tracciato prosegue sulla destra di questo filo, poco distante dal crinale.
Il passo è ormai abbondantemente alle nostre spalle, e noi possiamo
osservare il pizzo Rachele (m. 2998), che ne sorveglia il lato alla nostra
destra, e le propaggini del crinale meridionale della massiccia cima del
Duca (m. 2968), sul lato opposto. La morena ci testimonia che qui un tempo
c'era quello stesso ghiacciaio che, raggiunto il suo fronte massimo intorno
alla metà dell'Ottocento, si è poi progressivamente ritirato
nel secolo e mezzo successivo. Ci potrebbe forse capitare di ascoltare,
scendendo, qualche frequentatore abituale di questi luoghi commentare
cono toni stupiti e magari un po' desolati questo ritiro. Per osservare
il ghiacciaio dobbiamo guardare alla nostra sinistra. Ciò che però
attira innanzitutto il nostro sguardo è il versante orientale del
monte Disgrazia (m. 3678), alla cui destra si distinguono la punta Kennedy
(m. 3283) ed il pizzo Ventina (m. 3254). Fra le due cime si insinua il
canalone della Vergine, occupato da un piccolo ma poderoso ghiacciaio.
Il ghiacciaio è ormai ritratto nel grande vallone che scende dal
pizzo Cassandra (m. 3226). La valle è percorsa dai diversi rami
del torrente Ventina, che scende proprio dal ghiacciaio. Sulle sue rive,
nei periodi di maggiore afflusso vacanziero, soggiornano torme di turisti
attratti dal fascino dell'alta quota raggiunta senza eccessivi sforzi
(al pianoro si può infatti salire da Chiareggio in un'ora di cammino
o poco più).
La meta ormai è vicina: abbiamo percorso buona parte del pianoro
della valle, ingentilito dai radi larici, e rimane sempre suggestivo,
di fronte al nostro sguardo, lo scorcio della val Muretto. La traccia
di sentiero, in questo tratto, si dipana fra grandi massi, che ci costringono
a prestare attenzione fino all'ultimo passo. Il tratto più insidioso
di un'escursione, infatti, è spesso quello terminale, quando la
stanchezza ed una naturale deconcentrazione possono determinare incidenti
dagli esiti talora anche
seri. Se noi proseguiamo oltre i rifugi Gerli-Porro e Ventina, possiamo
gustare quei panorami per i quali Chiareggio e l'alta Valmalenco sono
giustamente famose. Ecco una parte della testata della val Sissone, meta
della terza giornata dell'alta via: si distinguono, da sinistra, la punta
Baroni, o Cima di Chiareggio settentrionale, il monte Sissone, la seminascosta
cima di Rosso e la cima di Vazzeda, che le ruba la scena.
Il pernottamento può avvenire in uno dei due rifugi che costituiscono
la meta di questa seconda tappa. Il primo rifugio sul nostro cammino è
il Ventina (m. 1965). Fra questo rifugio ed il Gerli-Porro si notano,
sulla destra, numerosi segnavia che dettano il percorso che, salendo ripido
sul fianco montuoso, conducono al pianoro roccioso che ospita il lago
Pirola (m. 2283). Ecco, infine, il rifugio (anzi, i rifugi) Gerli-Porro
(m. 1960). Qui, dopo circa otto ore di cammino, termina la seconda tappa,
che costituisce un poderoso balzo in avanti che, dai bucolici scenari
della val Torreggio, ci ha portati nel cuore dell'alta Valmalenco, dove
ormai si respira quell'inconfondibile aria di alta quota che costituirà
l'elemento caratterizzante di molte delle tappe successive.
Per leggere il resoconto della terza
tappa, apri la relativa presentazione. |
|
Difficoltà |
EE (escursionisti esperti) |
Dislivello |
mt. 1050 |
Tempo |
8 h |
|
|
Cartina
Kompass n. 93 (Bernina-Sondrio) |
Testo e fotografie a cura di M.
Dei Cas |

3a Tappa - Dai rifugi Gerli-Porro o Ventina attraverso la val Sissone.
Salita al rifugio Del Grande-Camerini e discesa al rifugio Tartaglione
Chiareggio
La terza tappa, insieme alla quinta, è quella
che riserva le maggiori emozioni, perché gli scenari che apre
improvvisamente al nostro sguardo sono semplicemente grandiosi, e mettono
in seria difficoltà il povero cronista, che fatica non poco a
trovare aggettivi adeguati ad evocarne l'impatto di forte suggestione
visiva. Partiamo dai rifugi Gerli-Porro e Ventina (o, se abbiamo preferito
scendere in paese, da Chiareggio). Scendendo dai rifugi, troviamo, dopo
un breve tratto, un tornante sinistrorso, seguito subito da uno destrorso.
Fra i due tornanti è facilmente individuabile un sentiero che
si stacca sulla sinistra dal tratturo. Una scritta su un masso ci indica
che si tratta del sentiero che porta all'alpe Forbesina (o Forbicina).
Il sentiero scende verso il fondovalle e ne percorre il lato destro.
Ad un certo punto si può seguire una deviazione a sinistra, che
varca il torrente Ventina e si addentra nel primo tratto
del lato sud-orientale della val Sissone, fino ad un ponte sul ramo
del torrente Màllero che scende dalla valle, ponte che ci permette
di passare sul lato opposto, proseguendo nel percorso dell'alta via.
E' però preferibile ignorare la deviazione e proseguire fino
all'alpe Forbesina (m. 1640), che si raggiunge valicato il Màllero,
per poi dirigersi a sinistra, verso l'interno della valle, sul suo lato
nord-occidentale. Ignorata la deviazione a destra per il rifugio Tartaglione-Crispo
(sentiero che permette anche, per una via più breve rispetto
all'alta via, di raggiungere il rifugio Del Grande-Camerini), raggiungiamo
così la bucolica alpe Laresin (m. 1710).
Ignorata anche la deviazione che sale a destra nel bosco alla volta
dell'alpe Sissone, seguiamo gli ormai famigliari triangoli gialli, il
cui tracciato, su un terreno spesso faticoso perché disseminato
di massi, si addentra nella valle, lasciandosi alle spalle gli ultimi
radi larici. Superiamo così una pronunciata gola rocciosa, ben
visibile alla nostra destra.
Diritte davanti ai nostri occhi sono invece facilmente riconoscibili
le tre cime di Chiareggio, e precisamente, da sinistra, la cima meridionale
(m. 3093, immediatamente a destra del passo di Mello, fra val Sissone
e val Cameraccio), la cima centrale (m. 3107) e la cima settentrionale
(m. 3203). Quest'ultima, conosciuta anche come punta Baroni, non è
soltanto la più elevata, ma anche senz'altro la più elegante,
con il suo vertice conico dalle forme possenti ed armoniose e con il
singolare e pronunciato spigolo orientale. La cima è dedicata
alla memoria della guida alpina bergamasca Antonio Baroni, che proprio
su queste
montagne, alla fine dell'ottocento, ebbe modo di dimostrare tutto il
suo valore.
Ma non distraiamoci: non dobbiamo, infatti, perdere d'occhio i segnavia,
perché ad un certo punto il tracciato devia a destra e risale
il fianco della valle, seguendo una traccia molto incerta fra magri
pascoli. Raggiungiamo così un piccolo pianoro e ci troviamo di
fronte ad una cascata di portata limitata ma dal salto considerevole.
Attraversato il torrentello, riprendiamo la salita, che si fa sempre
più ripida, mettendo a dura prova muscoli e polmoni. Guadagnato
un secondo ripiano (o meglio, il più dolce declivio terminale
del fianco della valle), ci troviamo di fronte ad uno spettacolo che
ci ripaga ampiamente della fatica: le cime di Rosso (m. 3366, a sinistra
nella foto sopra) e di Vazzeda (m. 3301) chiudono, con la loro muraglia
rocciosa, il lato nord-occidentale della valle. Si tratta di cime che
si pongono sul limite orientale del gruppo Masino-Bregaglia. Il colore
più chiaro della cima di Vazzeda è dovuto alla sua situazione
singolare per cui (caso unico nel gruppo montuoso) alle rocce granitiche
si sono sovrapposte rocce sedimentarie. Non è questo, peraltro,
l'unico motivo di interesse mineralogico della val Sissone, che è
una sorta di Eldorado per gli appassionati di mineralogia, che hanno
potuto trovarvi, in decenni di ricerche fra la massa sterminata dei
sassi, reperti mineralogici rari e pregiati. Se poi volgiamo lo sguardo
a sinistra, vediamo che a nord-ovest della punta Baroni è apparso
allo sguardo il monte Sissone (m. 3330), dietro un lungo crinale morenico
che ricorda quello della valle di Preda Rossa.
Ma
lo spettacolo destinato ad imprimersi con maggior forza nella memoria
è senza dubbio quello che ci riserva il fianco meridionale della
valle, dove si dispiega di fronte ai nostri occhi i tormentato e selvaggio
scenario della vedretta settentrionale del monte Disgrazia (m. 3678),
segnata da grandi seracchi e crepacci. Quando i primi alpinisti inglesi
vennero per conquistare la montagna da questo lato, si sentirono dire,
dalla gente del posto, dopo la caduta fragorosa di qualche seracco a
valle: desgiàscia, cioè si scioglie; questa è la
più probabile spiegazione dell'origine del nome del monte, visto
che la storia della sua conquista non è segnata da particolari
eventi luttuosi.
Ma è tempo di riprendere il cammino: ora la traccia piega a destra,
salendo gradualmente e superando un grosso e caratteristico masso biancastro.
Oltrepassati alcuni valloncelli, puntiamo in direzione del crinale roccioso
che scende dal fianco sud-orientale della cima di Vazzeda. Il sentiero
raggiunge una ben visibile spaccatura nella roccia: si tratta del Passo
della Corna di Sissone di dentro (m. 2438), che permette di passare
dall'alpe Sissone di dentro all'alpe Sissone. Attraverso lo stretto
intaglio della porta possiamo intravedere alcune delle grandi cime della
testata della Valmalenco, e precisamente il pizzo Tremoggia (m. 3441),
il pizzo Malenco (m. 3438) ed il sasso d'Entova (m. 3329). Lo sguardo
si apre quindi all'ampio circo terminale dell'alpe Sissone, dominato
ancora, a sinistra, dalla cima di Vazzeda.
La discesa all'alpe è facile e sfrutta, nel primo tratto, un
bel sentiero scalinato. Poi ci tocca una nuova traversata sostanzialmente
pianeggiante, finché giungiamo al punto (m. 2290) in cui l'alta
via intercetta il sentiero che sale direttamente dall'alpe Laresin all'alpe
Sissone (segnavia rosso-bianco-rossi). Ora il
sentiero piega a sinistra, salendo ripido alla costiera che separa l'alpe
Sissone dall'ampio terrazzo che si trova sotto la piccola vedretta di
Vazzeda. Raggiunta la base del crinale roccioso, dobbiamo superarlo
con qualche semplice passo di arrampicata.
L'ultimo passaggio richiede per la verità molta cautela e concentrazione,
soprattutto se la roccia è bagnata: per fortuna è stato
recentemente attrezzato con corde fisse. Sormontate le roccette del
crinale, appare a sinistra la bandiera italiana, che preannuncia la
presenza di un rifugio. Dobbiamo risalire per qualche decina di metri
prima di raggiungerlo: si tratta del rifugio Del Grande-Camerini (m.
2580), che, lasciato per diverso tempo in condizioni di abbandono, è
stato di recente riaperto, grazie all'iniziativa del CAI di Sovico (http://digilander.iol.it/caisovico;
caisovico@libero.it; tel.: 0342 556010).
Dal rifugio si domina l'alta Valmalenco, da San Giuseppe a Chiareggio.
Lo sguardo, a sinistra, è attirato dalla bella piramide del monte
del Forno (m. 3214), alla cui sinistra è collocata la sella del
Forno (m. 2775), che permette di scendere, sul versante svizzero, alla
Vedretta del Forno, raggiungendo, in breve, il rifugio del Forno, del
Club Alpino Svizzero.
L'ultimo tratto di questa terza tappa è interamente in discesa:
seguendo infatti le indicazioni poste su un grande masso poco sotto
il rifugio, seguiamo nel primo tratto la direzione che punta direttamente
al fondovalle, per poi piegare a sinistra e, ignorata la deviazione
a destra che scende direttamente al rifugio Tartaglione-Crispo (segnavia
bianco-rossi; attenzione a seguirli per non perdersi
nel bosco), iniziare una lunga diagonale che, superati alcuni valloncelli,
conduce al limite superiore di un bel bosco di larici, dove il sentiero
piega a destra (est). L'ulteriore discesa nel bosco ci permette di raggiunge
il limite superiore dell'alpe Vazzeda superiore (m. 2033), dove al sentiero
dell'alta via si congiunge quello che scende dalla sella del Forno (segnavia
bianco-azzurri). Attraversata l'alpe e raggiunto il suo limite inferiore,
scendiamo attraverso un largo corridoio, in direzione all'alpe Vazzeda
inferiore (m. 1832).
Attraversata anche quest'alpe, riprendiamo il sentiero che, nel suo
limite inferiore, riparte tagliando decisamente a destra e raggiungendo
in breve un torrentello, superato il quale su un ponticello di troviamo
ad un bivio. Proseguendo a destra raggiungiamo il rifugio Tartaglione-Crispo,
dove possiamo pernottare. Scendendo invece a sinistra ci ritroviamo
al ponte sul Màllero, varcato il quale percorriamo la bella pineta
del Pian del Lupo, su una comoda strada sterrata che ci porta al grande
parcheggio di Chiareggio.
E proprio da Chiareggio, dove possiamo pernottare, gettiamo un'ultima
occhiata alle cime che abbiamo potuto ammirare da vicino, cioè
la parete nord del Disgrazia, le cime di Chiareggio, il monte Sissone
e le cime di Rosso e di Vazzeda.
La terza tappa richiede circa 7 ore; il dislivello effettivamente superato
in salita è di poco più di 1000 metri.
|
|
Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 1000 |
Tempo |
7 h |
|
|
Cartina
Kompass n. 93 (Bernina-Sondrio) |
Testo e fotografie a cura di M.
Dei Cas |
4a
Tappa - Da Chiareggio al rifugio Palù, passando per il rifugio
Longoni
Ripartiamo, dunque, da Chiareggio, per effettuare la quarta
tappa che si configura come una lunga traversata panoramica. Il primo
tratto, da Chiareggio all'alpe Fora, può essere percorso in due
modi diversi.
Il più lungo prevede la salita all'alpe dell'Oro, seguendo la strada
che entra nella valle del Muretto e sale al passo. All'alpe si lascia
la strada per imboccare a destra un sentiero che effettua una lunga traversata,
poco sotto la quota 2100, fino all'alpe.
La seconda variante permette di risparmiare un'ora circa di cammino, ed
offre scorsi panoramici non meno affascinanti. Se la scegliamo, dobbiamo
portarci all'ingresso di Chiareggio, dove troviamo le indicazioni della
quarta tappa dell'alta via, che ci fanno imboccare, sulla sinistra, una
strada carrozzabile, la quale, dopo un breve tratto, conduce ad un breve
sentiero mineralogico, dove troviamo gli esempi delle diverse rocce che
caratterizzano il variegato panorama della Valmalenco. Seguendo i segnavia
(che fino all'alpe Fora sono nella maggior parte dei casi bandierine rosso-bianco-rosse,
spesso sovrapposte ai triangoli gialli dell'alta via) e lasciando alle
nostre spalle le case di Corti (m.1638), entriamo poi in un fresco bosco
e, superato il torrente della val Novasco, saliamo, con una lunga diagonale
verso nord-est, fino a raggiungere il limite inferiore dell'alpe Fora,
sul lato occidentale della val Forasco.
All'uscita
dal bosco si impongono subito alla nostra attenzione due cime, il pizzo
Tremoggia (m.3441) ed il pizzo Malenco (m.3438). Il primo è di
grande interesse, in quanto presenta la particolarità di essere
rivestito di roccia dolomitica. Alla sua sinistra si trova, su una ben
visibile depressione del crinale, il passo di Tremoggia (m.3014), al quale
si sale abbastanza facilmente dal rifugio
Longoni. Non meno interessante è il panorama che ci si offre
sul lato opposto, cioè verso sud-ovest: qui è la parete
nord del monte Disgrazia ad imporsi, ma, a differenza di quanto accade
durante la terza tappa, qui il suo volto appare meno selvaggio e più
armonioso e simmetrico. Il sentiero risale i prati inferiori dell'alpe
e, dopo un ultimo ripido tratto, guadagna il pianoro che prelude alla
conca dell'alpe. Superato un torrentello, raggiungiamo la conca dell'alpe
Fora, a 2053 metri, che si configura come un grande e splendido terrazzo,
impreziosito da un piccolo specchio d'acqua, nel quale si specchiano il
monte Disgrazia e l'intera testata della val Sissone. Fa piacere, in questo
luogo gentile, sostare per passare in rassegna le cime che abbiamo incontrato
più da vicino durante la terza tappa. L'alpe è chiusa, a
monte, da alcune cascate, che scendono dagli scuri gradoni rocciosi.
L'alta
via prosegue verso sud-est: attraversata l'alpe, dobbiamo superare, con
una salita non severa, una fascia di lisce rocce, prima di raggiungere
un trivio: i cartelli ci indicano che scendendo a destra raggiungiamo
la strada per San Giuseppe, salendo a sinistra ci dirigiamo verso il passo
di Tremoggia. Noi, però, proseguiamo diritti, raggiungendo, dopo
pochi minuti, la bandiera italiana, che precede di poco il rifugio
Longoni. Il rifugio è posto a 2450 metri, su un terrazzo roccioso
panoramico dal quale si domina l'alta Valmalenco e si gode di un'ottima
visuale sulla parete nord del monte Disgrazia e sulla testata della val
Sissone. Siamo al punto più alto della tappa, ed a circa metà
del percorso, per cui una sosta è quanto mai opportuna. Ritemprate
le energie, torniamo al trivio e scendiamo verso sud-est, seguendo un
sentiero che, ben presto, attraversa un bel boschetto di pini mughi, prima
di congiungersi con la strada sterrata che dai Prati della Costa, sopra
san Giuseppe, sale verso l'ex
rifugio Entova-Scerscen.
Raggiunta
la strada, seguiamo la segnalazione per il rifugio
Palù (qui viene indicato a 4 ore di cammino) e proseguiamo
in leggera salita, verso nord-est, finché, dopo aver attraversato
un torrentello, in corrispondenza di un tornante sinistrorso, troviamo
l'indicazione della deviazione a destra che ci fa staccare dalla strada
per effettuare una lunga traversata verso sud-est. Il primo tratto di
questa traversata è piuttosto faticoso, perché dobbiamo
superare una fascia di grandi massi; le segnalazioni sono però
veramente abbondanti, per cui non possiamo perderci. Dopo aver attraversato
il torrente Entovasco, iniziamo a salire gradualmente, trovando ogni tanto
una traccia di sentiero, alternata a tratti in cui sono ancora i massi
a farla da padrone. Ai tratti in salita si succedono anche brevi discese,
in uno scenario solitario e selvaggio. Verso nord est la montagna mostra
un volto arcigno e quasi scorbutico, costituito da speroni rocciosi e
grandi ammassi di sfasciumi. Si distingue facilmente uno sperone più
avanzato rispetto agli altri, denominato il Castello. Oltrepassato
lo sperone, si raggiunge l'alpe Sasso Nero (m.2304), posta ai piedi del
grande fianco sud-occidentale del Sasso Nero (m.2919). Ad una discesa
che ci permette di superare un valloncello segue una nuova, faticosa ma
ultima risalita, che ci fa guadagnare di nuovo una quota di poco superiore
ai 2300 metri, su un piccolo terrazzo dal quale, finalmente, si mostra
lo scenario più gentile dell'alpe e del lago Palù.
A questo punto il sentiero piega a destra (sud-est) e scende deciso in
un bosco di pini mughi. Ai pini mughi si sostituiscono gradualmente gli
abeti, mentre il sentiero piega leggermente a destra. Lo scampanio delle
mucche (se percorriamo l'alta via nel periodo estivo) sembra un ritorno
alla vita dopo una traversata del deserto. Ecco infatti, al termine della
discesa, l'alpe Roggione (m.2007), dalle cui belle baite scendiamo verso
destra, raggiungendo, in breve, il rifugio
Palù. Il rifugio è posto a 1947 metri, e costituisce
il punto d'appoggio per il pernottamento: la quarta tappa, infatti, dopo
circa sette ore di cammino ed un dislivello in salita effettivo di circa
1000 metri, termina qui. In attesa del tramonto non possiamo però
mancare di scendere sulle rive del bellissimo lago Palù (m.1921),
dove, se non c'è troppa gente, spira un senso di pace e di armonia
che ci pervade nel profondo.
|
|
Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 1000 |
Tempo |
7 h |
|
|
Cartina
Kompass n.93 - Bernina-Sondrio |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
5a
Tappa - Dal rifugio Palù all'alpe Musella e salita al rifugio
Marinelli-Bombardieri per la bocchetta delle Forbici
Doppiata la boa della nostra maratona escursionistica,
con questa quinta tappa ci portiamo dal lato occidentale a quello centro-orientale
dell'alta Valmalenco, lato che a sua volta si divide nella valle di Scerscen
e nella val Lanterna.
Partiamo, dunque, dal rifugio
Palù e torniamo all'alpe Roggione (m.2007), dalla quale siamo
scesi al termine della quarta tappa. Seguendo le indicazioni attraversiamo
un piccolo bosco, nel quale la traccia di sentiero si fa strada a fatica
fra alcuni grandi massi. Usciti dal bosco, cominciamo a risalire uno stretto
vallone, fra erbe e qualche masso, in direzione della sella terminale,
cioè del Bocchel del Torno (m.2203). Oltre la sella si presenta
al nostro sguardo una delle cime che avremo modo di osservare con maggiore
frequenza durante le rimanenti tappe, vale a dire il pizzo Scalino (m.3323).
Ignoriamo le segnalazioni alla nostra sinistra, che guidano chi volesse
salire alla cima del Sasso Nero (m.2919), e cominciamo a scendere verso
destra, entrando nuovamente in un bosco di larici, dal volto, però,
questa volta più gentile.
Ignoriamo
la deviazione che, alla nostra destra, conduce all'alpe Campolungo, dalla
quale si sale al passo omonimo (m.2167), gemello del Bocchel del Torno
(il passo è infatti posto fra il monte Roggione, a nord, ed il
monte Motta, a sud, ed è separato dal Bocchel del Torno dal monte
Roggione). Continuiamo, dunque, a scendere verso sud-est, raggiungendo
le piste di sci e la stazione dalla quale parte lo ski-lift che sale fino
al monte Motta. Poco sopra la quota 1800, invece di proseguire nella medesima
direzione (che ci condurrebbe al rifugio
Scerscen - m.1813 - e da qui a Campo Franscia - m.1620), pieghiamo
a sinistra, percorrendo una mulattiera che effettua una lunga traversata
sul fianco orientale del versante montuoso che dal Sasso Nero scende fino
al monte Motta: entriamo così nella valle di Scerscen e, superato
l'omonimo torrente, raggiungiamo il pianoro dell'alpe Campascio, fino
alle baite dell'alpe (m.1844), precedute da due torrenti da attraversare
su di un ponte al loro confluire all'inizio della piana.
Presso la prima di queste baite imbocchiamo, sempre seguendo le segnalazioni,
il sentiero che riprende a salire ripido verso destra (nord-est) per circa
duecento metri all'ombra del bosco, fino a raggiungere la radura dove
sono collocati i rifugi Mitta
e Musella, a 2021 metri,
circondati dalla bellissima cornice di boschi gentili. Poco oltre i rifugi
in direzione nord raggiungiamo poi le baite dell'alpe Musella (m.2076),
dalle quali inizia la lunga salita che porterà alla bocchetta delle
Forbici. A
questo sentiero si congiunge da destra, poco sopra la quota 2200, quello
che parte dal limite sud-occidentale della diga di Campomoro ed attraversa,
quasi pianeggiante, il bosco di radi larici che costituisce il limite
superiore dell'alpe Musella. Quando vediamo il cartello che indica la
deviazione a destra per Campomoro, abbiamo già iniziato quella
lunga e faticosa salita che ci permetterà di sormontare sette dossi
posti in rapida successione: si tratta dei famosi "sette sospiri",
che devono la loro denominazione non solo ad alcune brusche impennate
del sentiero, ma anche alla fallace impressione che la bocchetta delle
Forbici sia lì, a portata di mano, impressione alla quale succede
l'amara constatazione che il percorso è più lungo e faticoso
di quanto ci si aspetterebbe. Lo scenario che ci sta di fronte, però
nella sua bellezza in parte ci ripaga dalla fatica: le chiare cime di
Musella ci fanno già respirare quell'aria di alta montagna che
dominerà sovrana oltre la bocchetta. Raggiungiamo infine, appena
sotto la bocchetta, il, si può ben dire, sospiratissimo rifugio
Carate Brianza, posto poco al di sopra della quota 2600. Tre quarti
buoni della tappa sono ormai alle nostre spalle ed il rifugio costituisce
il luogo ideale per sostare e chiamare a raccolta le forze residue, prima
dello strappo finale. Dal rifugio lo sguardo può spaziare sull'intera
vallata, dominata dalla scura e massiccia mole del Sasso Moro (m. 3108).
Dal rifugio alla bocchetta (m.2636) il passo, si può ben dire,
è breve.
Lo
scenario che ci attende al di là di essa è probabilmente
il più bello dell'intera alta via: improvvisa e perentoria, ecco
la testata della Valmalenco, con i suoi colossi che, parafrasando la celebre
frase del Re Sole, sembrano dire "La Valmalenco siamo noi".
Vale la pena di passarle in rassegna con calma. Il lato sinistro è
occupato dalla vedretta di Scerscen inferiore e dal poderoso bastione
roccioso sul quale si elevano il pizzo Gluschaint (m.3594), i pizzi Gemelli
(m.3584, 3564, ben visibili da Sondrio) ed il pizzo di Sella (m.3517).
A destra dell'evidente depressione del passo di Sella si collocano le
più famose cime di questa testata. Innanzitutto il pizzo Roseg
(m.3937), che da qui appare in tutta la sua imponenza ed insieme eleganza.
Poi il pizzo Scerscen (m.3971), alla cui destra si colloca la più
alta vetta delle Alpi Retiche e la più occidentale delle cime che
superano i 4000 metri, il pizzo Bernina (m.4050), che per la verità
non è ancora visibile dalla bocchetta: bisogna, infatti, percorrere
un tratto del sentiero che permette di aggirare uno sperone roccioso per
vederlo gradualmente comparire davanti al nostro sguardo.
Aggirato
lo sperone roccioso che scende verso nord-ovest dal gruppo delle cime
di Musella, il sentiero piega verso destra, alla volta del pianoro detritico
che si trova ai piedi della vedretta di Caspoggio, passando a destra di
un laghetto. Man mano che ci avviciniamo al pianoro, si apre, alla nostra
destra, una visuale sempre più ampia sulla vedretta di Caspoggio,
piccolo ghiacciaio che dovremo risalire all'inizio della sesta tappa e
dal quale scendono diversi torrentelli, che attraversiamo anche con l'ausilio
di un ponticello. Non manca molto, ormai, alla meta, il rifugio
Marinelli-Bombardieri (m.2813), ma l'ultimo tratto richiede ancora
uno sforzo che, data la stanchezza, appare severo. Il rifugio è,
infatti, collocato su un grande sperone roccioso posto a sud-ovest del
crinale che scende dalla punta V° Alpini e dal passo Marinelli occidentale,
per cui il sentiero che lo raggiunge si inerpica, con diversi tornanti,
sul pendio del suo fianco orientale.
Alla fine, però, dopo circa 7-8 ore dalla partenza, anche il grande
rifugio e più antico rifugio della Lombardia è raggiunto.
Abbiamo superato, in salita, un dislivello effettivo di circa 1300 metri.
. |
|
Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 1300 |
Tempo |
7 h e 30 min |
|
|
Cartina
Kompass n.93 - Bernina-Sondrio |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
6a
Tappa - Dal rifugio Marinelli-Bombardieri al rifugio Bignami, per la
bocchetta di Caspoggio
Questa sesta tappa ci fa rimanere nel cuore del gruppo
del Bernina, effettuando una traversata dal rifugio
Marinelli al rifugio
Bignami, attraverso la bocchetta di Caspoggio. Tocchiamo in essa,
proprio sui 2983 metri della bocchetta di Caspoggio, il punto più
alto dell'intera alta via. Ci attende anche una breve esperienza di risalita
di un ghiacciaio, la vedretta di Caspoggio, annidato a settentrione della
cima di Caspoggio (m.3136) e delle cime di Musella.
Per attaccare il piccolo ghiacciaio dobbiamo ripercorrere in discesa l'ultimo
tratto della quinta tappa, fino ai piedi dello sperone roccioso del rifugio
Marinelli. Qui,
invece di proseguire a destra, verso la bocchetta delle Forbici, puntiamo
verso sud-est, in direzione del limite inferiore di sinistra del ghiacciaio.
Per raggiungerlo dobbiamo risalire una ganda, per poi toccare il primo
lembo di neve, a valle rispetto alle roccette che chiudono il ghiacciaio
a sinistra. In genere sono le tracce di coloro che sono già transitati
ad indicarci la via di risalita, e le dobbiamo seguire scrupolosamente,
perché, pur essendo il ghiacciaio, nel suo lato nord-orientale
(di sinistra) poco crepacciato, non lo si deve mai prendere sottogamba.
Piccoli crepacci, infatti, possono celarsi sotto la superficie innevata,
anche a poca distanza dalla via percorsa. Capita, qualche volta, di vedere
qualche escursionista sprovveduto risalire o scendere la vedretta con
un equipaggiamento che ricorda la famosa canzone di Jannacci il cui testo
recita: "El purtava i scarp de tenis..." Ci vogliono invece
calzature adeguate; un paio di ramponi ed una piccozza non sono affatto
di troppo (per sicurezza, chiedere ai gestori del rifugio Marinelli notizie
sulle condizioni della neve). La
via di salita descrive un arco che si tiene sempre sul lato sinistro del
ghiacciaio, approssimandosi all'evidente sella della bocchetta. La salita
verso la bocchetta ci permette di ammirare da vicino altri due giganti
del gruppo del Bernina, che nella precedente tappa ci sono rimasti nascosti.
Si tratta del piz Argient (m.3915) e del piz Zupò (m.3995, vedi
foto a destra), le cui lisce e monolitiche pareti suscitano una vivida
impressione di potenza e solennità. Più lontane e defilate,
ma sempre regali appaiono, infine, a nord-ovest le ormai familiari cime
dei pizzi Roseg, Scerscen e Bernina.
La bocchetta è una spaccatura nell'aspro crinale roccioso che congiunge
la punta Marinelli (m.3182) alla cima di Caspoggio (m.3136). Dall'altra
parte sembra aprirsi un nuovo mondo: non più le torreggianti e
maestose cime del gruppo del Bernina, ma una profonda fuga di quinte,
montagne dietro le quali si profilano altre montagne, fino ad un orizzonte
lontano di alte cime che scorgiamo appena. In primo piano si aprono davanti
ai nostri occhi la valle Confinale e Poschiavina, naturali porte sulla
più grande Val Poschiavina, in territorio svizzero. Il
primo tratto della discesa sul nevaio che si trova sotto la bocchetta
richiede attenzione, perché si deve superare una piccola fascia
rocciosa, con l'ausilio di corde fisse. Poi, toccata la prima neve, si
prosegue con maggiore tranquillità, descrivendo un arco di cerchio
sulla destra, fino a raggiungere i primi massi di un largo vallone detritico.
La bocchetta rimane visibile ancora per un buon tratto, finché
la traccia, raggiunto il limite di una sorta di ampio balcone, comincia
a scendere più decisamente, serpeggiando fra i massi del vallone.
Nell'ulteriore discesa non mancano i motivi di interesse panoramico: alla
nostra destra ottima è la visuale sul pizzo Scalino (m.3323) e
sulla sua vedretta, mentre a sinistra comincia ad aprirsi lo scenario
della vedretta di Fellaria Orientale, che si stende sotto le propaggini
orientali della testata della Valmalenco, chiusa dal piz Varuna (o pizzo
Verona, m.3453). Più
scendiamo, maggiori sono i particolari che la complessa architettura montuosa
che ci circonda rivela ai nostri occhi. Guardando di nuovo a destra, scorgiamo
la tozza e massiccia mole del fianco nord-orientale del Sasso Moro (m.3108),
a destra del quale si mostra anche la forca di Fellaria (m.2819), che,
al termine di un vallone detritico, permette di scendere, attraverso un
vallone gemello, nell'alta valle di Musella; vi è infatti un percorso
segnalato che conduce fin nei pressi del rifugio
Carate Brianza. Scesi ormai all'alpe Fellaria (m.2401), possiamo tornare
ad ammirare, alla nostra sinistra, la poderosa mole del piz Argient e
del piz Zupò, sotto i quali si stende la vedretta di Fellaria.
Da essa scendono diversi torrentelli, che superano l'ultimo gradone roccioso
con fragorose cascate.
Anche la sesta tappa volge ormai alla fine: poco al di sotto dell'alpe
Fellaria, infatti, a 2385 metri raggiungiamo il rifugio
Bignami, dopo circa 4 ore di cammino. Il dislivello superato in salita
è il più modesto fra le tappe dell'alta via, 350 metri circa.
La
tappa è quindi, insieme all'ottava ed ultima, la più breve
e meno faticosa in questa maratona fra i monti della Valmalenco, ma certamente
non la meno suggestiva.
|
|
Difficoltà |
EE (escursionisti esperti) |
Dislivello |
mt. 350 |
Tempo |
4 h |
|
|
Cartina
Kompass n.93 - Bernina-Sondrio |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
7a
Tappa - Dal rifugio Bignami al rifugio Cristina, per i passi di Canciano
e Campagneda
Nella settima tappa ci porteremo decisamente sul limite
nord-orientale della Valmalenco, percorrendone anche per un tratto la
linea di confine con il territorio svizzero della Val Poschiavina. Imbocchiamo
dunque il largo sentiero che dal rifugio
Bignami scende verso il muraglione del grande lago creato dalla diga
di Gera. Il sentiero percorre il fianco orientale del Sasso Moro e non
presenta alcuna difficoltà, ma va percorso con attenzione perché
il versante montuoso può scaricare a valle, soprattutto ad inizio
stagione, dei massi. Raggiunto il camminamento che percorre la sommità
del grande muraglione della diga, ci portiamo sul lato opposto, dal quale
possiamo godere di un eccellente panorama sulla parte orientale della
testata della Valmalenco. Al centro dello scenario si colloca ora la grande
mole del Sasso Rosso (m.3481), dietro il quale si intravede il passo di
Sassi Rossi (m.3510) che introduce all'altopiano di Fellaria. Appena visibile,
fra la vedretta di Fellaria e la vedretta di Fellaria orientale, si scorge
il più orientale dei colossi del gruppo del Bernina, il piz Palü
(m.3905). Dal lato orientale della sommità del muraglione della
diga (m.2060) parte una carrozzabile che ne percorre il lato est: imbocchiamola,
dopo aver gettato un'occhiata alla sottostante e più piccola diga
di Campomoro (m.1990), alle cui spalle è ben riconoscibile il profilo
del monte Disgrazia. Attraversiamo anche una piccola galleria, all'uscita
dalla quale riusciamo ad individuare facilmente, a sinistra del Sasso
Rosso, il piz Argient ed il piz Zupò, che mostrano solo la loro
cima. Dopo un breve percorso giungeremo ad un bel terrazzo, in corrispondenza
del quale la strada, presidiata ai lati da alcuni grandi massi, piega
a destra per salire in val Poschiavina. La salita conduce ben presto ad
un ponte sul torrente della valle, al quale scende un sentiero che si
stacca sulla sinistra dalla strada: si tratta del percorso necessario
per effettuare il giro del lago di Gera.
A questo punto della tappa si può però giungere anche percorrendo
una variante interessante, che, semplicemente, ag gira
il lago con un semicerchio simmetrico, seguendone quindi il lato nord-orientale.
Torniamo quindi al rifugio Bignami ed imbocchiamo un sentierino che parte,
segnalato da segnavia rosso-bianco-rossi, alle sue spalle, scendendo deciso
in un vallone che confluisce nel grande anfiteatro terminale della val
Lanterna, occupato da una quantità enorme di materiale detritico
e delimitato dal gradino roccioso dal quale scendono le cascate di Fellaria.
Il sentiero scende inizialmente verso nord est, poi piega più a
destra e, attraversato il vallone su un primo ponte, si dirige verso la
parte alta dell'anfiteatro, percorsa da un gran numero di torrentelli
che si diramano da tre grandi cascate. Si tratta del cosiddetto "sentiero
dei ponti", perché sono proprio sette comodi ponticelli a
permetterci di superare questi torrentelli, che possono assumere una portata
non indifferente. Nella traversata verso il lato orientale dell'anfiteatro
abbiamo modo di ammirare le tre grandi cascate che scendono fragorosamente
da un alto salto roccioso.
Siamo dunque alle baite dell'alpe Poschiavina (m.2230), che suscita un
senso di ordine, apertura e luminosità. Dobbiamo ora risalire interamente
la valle, fino al suo limite orientale. Si tratta di un percorso facile
e rilassante, segnato, se la giornata è buona, dallo splendore
delle tonalità di un verde che conferisce alla valle un'impronta
di vita anche quando non vi si trovano ancora (o non ci sono più)
mucche e pastori. Rimanendo sempre a sinistra del torrente, ci approssimiamo
ad una larga porta delimitata da due grandi formazioni rocciose, porta
che ci introduce ad un secondo grande ripiano, dove la valle termina.
Nel tranquill o
percorso che ci avvicina alla fascia di rocce che la delimitano ad est
possiamo gustare la bellezza del luogo. Alla nostra sinistra grandi dossi
erbosi salgono verso il crinale, dove si può individuare quel passo
di Ur (m.2520) al quale sale un sentiero che si stacca a sinistra dall'alta
via. Alla nostra destra, sul fianco meridionale, accidentato e sassoso,
della valle, il torrentello che scende dalla vedretta dello Scalino precipita
fragorosamente da un salto roccioso. Raggiunto il limite orientale della
valle, dobbiamo salire fra alcune roccette, prestando attenzione ai triangoli
gialli ed ignorando i segnavia bianco-rosso-bianchi che indicano il sentiero
che, alla nostra sinistra, volge in direzione del passo di Ur.
Raggiunto il crinale, fermiamoci a gettare un'occhiata sulla valle percorsa,
che ci apparirà in tutta la sua serena bellezza, impreziosita da
una cornice di tutto rispetto, perché sullo sfondo, inaspettatamente,
compariranno ai nostri occhi le imponenti cime del gruppo del Bernina:
ecco infatti di nuovo, da sinistra, i pizzi Roseg, Scerscen e (appena
intuibile) Bernina, poi, in primo piano, la coppia Argient-Zupò,
alla cui destra, arretrato, si scorge anche il piz Palü. Curiosamente,
la settima tappa è l'unica a regalarci angoli visuali ravvicinati
dai quali tutte le grandi cime del gruppo (quelle che superano i 3900
metri, intendo) siano visibili contemporaneamente. Sul crinale troviamo
anche alcuni cippi di confine, che risalgono al 1930 e che, con le lettere
"I" ed "S", puntualizzano dove il territorio italiano
e quello svizzero si incontrano (preferisco dir così, piuttosto
che "terminano").
Seguiamo
poi i segnavia che ci accompagnano nella tranquilla traversata di queste
terre di confine, verso quel passo di Canciano (o di Cancian, m.2464)
che un cartello ci segnala in corrispondenza di un pianoro dal quale parte
l'omonima valle svizzera, laterale di destra della Val Poschiavina (dal
pianoro si scorge, sul lato destro della val Canciano, un grande masso
che sembra curiosamente sospeso in equilibrio precario, quasi fosse in
procinto di cadere). Nel nostro tranquillo camminare incontreremo anche
una vera e propria perla, un piccolo specchio d'acqua nel quale si riflettono
i giganti del gruppo del Bernina. Il percorso comincia poi a volgere verso
destra e ci conduce ad attraversare il torrente che scende dalla vedretta
del pizzo Scalino e che, più in basso, precipita nella cascata
citata. Oltre il torrente saliamo ad un nuovo pianoro dove ci attende
una nuova sorpresa, un sistema costituito da cinque laghetti, ai piedi
di un gradone roccioso sopra il quale è ben visibile la vedretta
del pizzo Scalino. Oltrepassato il primo laghetto, ci troviamo ai piedi
di un grande dosso erboso, sovrastato da un ometto ben visibile: potremmo
facilmente risalirlo, seguendo una traccia di sentiero, per poi scendere
verso sinistra al pianoro sottostante. L'alta via descrive però
un percorso un po' più lungo. Se prestiamo attenzione ai triangoli
gialli, infatti, questi ci guidano fino ai piedi di un pronunciato dosso
morenico, del quale percorriamo per un buon tratto il filo, per poi deviare
verso destra, scendere ad un valloncello e risalire sul lato opposto,
raggiungendo il limite di un ampio pianoro, occupato da grandi massi.
Si tratta dello stesso pianoro al quale possiamo scendere dal dosso erboso,
se optiamo per la prima soluzione. In ogni caso dobbiamo però prestare
attenzione, perché l'alta via effettua qui una decisa svolta a
destra, attraversando il pianoro in diagonale e raggiungendo il limite
superiore di un grande vallone, che scende verso l'alpe Campagneda.
Ed
è proprio al limite superiore di questo vallone che troviamo il
cartello che segnala il secondo passo valicato da questa settima tappa,
il passo di Campagneda (m.2626). Inizia così una lunga discesa
sul lato sinistro del grande vallone. Non si tratta però, come
accade spesso nelle discese su terreno accidentato, di un noioso tributo
pagato all'itinerario escursionistico, perché altre piacevoli sorprese
accompagnano i nostri passi. Nella discesa, infatti, incontriamo, alla
nostra destra, il bel sistema dei laghetti di Campagneda, su ripiani successivi
di roccia, in una disposizione detta "a rosario". Certo, si
dirà, si tratta di una sorpresa per modo di dire, perché,
carte alla mano, sappiamo che i laghetti ci sono e che l'alta via ci passa
molto vicina. Eppure il successivo mostrarsi di questi specchi d'acqua,
che dal passo non si vedono, suscita comunque un piacevole stupore. L'emozione
estetica legata a questa discesa è arricchita, sulla nostra sinistra,
dalla bella ed inusuale prospettiva dalla quale il pizzo Scalino ci appare
(finalmente, perché nella prima parte della tappa ne abbiamo visto
solo la vedretta, chiusa ad est dal pizzo Canciano). Possiamo facilmente
riconoscere anche la sella a ridosso del Cornetto, alla quale sale il
sentiero percorso da chi sale al pizzo per la via più frequentata.
Si guardi la scheda
apposita in merito alla via di ascensione.
Raggiunto
l'ampia e verde spianata dell'alpe Campagneda superiore, poco al di sotto
del terzo ed ultimo laghetto (senza contare qualche secchio d'acqua minore),
pieghiamo a sinistra, verso sud, iniziando una sorta di traversata nel
deserto. Si tratta, beninteso, di un deserto verde, ma l'impressione è
proprio questa, perché per un buon tratto non vediamo altro che
prati e piccoli dossi occupati da formazioni rocciose, e ci chiediamo
dove siano baite ed alpeggi. Nella traversata i segnavia ci assistono
poco, perché li si trova solo ogni tanto, su qualche sasso. Dobbiamo
quindi prestare un po' di attenzione, evitando la tentazione di piegare
a destra e di scendere a vista. Teniamoci dunque nella parte centrale
del largo corridoio verde, puntando ad una prima fascia di roccette che
superiamo valicando una facile porta. Sulla nostra sinistra il pizzo Scalino
perde gradualmente il suo profilo slanciato ed elegante, assumendone uno
più tozzo e massiccio. Prestando attenzione a non seguire un'invitante
e marcata traccia che piega a sinistra, raggiungendo il piede del fianco
montuoso e salendo al Cornetto (è la traccia seguita da coloro
che vogliono scalare il pizzo
Scalino), proseguiamo, incontrando altri piccoli dossi ed alcuni pianori
erbosi veramente incantevoli.
Alla fine, percorsa l'ultima spianata, giungiamo in vista della meta.
Si tratta dell'alpe Prabello che, nelle giornate limpide, si mostra veramente
all'altezza della denominazione. Le sue baite, infatti, riposano in uno
scenario bucolico, dove regna un senso di profonda pace.
Dopo
aver superato in salita circa 600 metri in 5-6 ore di cammino, eccoci
al rifugio Cristina
(m.2287), dove, all'ombra del pizzo Scalino, possiamo pernottare. Qualora
avessimo pensato, all'inizio di questa tappa, che ormai l'alta via non
avrebbe più avuto molto da riservarci, dobbiamo ora interamente
ricrederci: queste sei ore di cammino tranquillo sono, in una bella giornata,
pura gioia per gli occhi.
|
|
Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 600 |
Tempo |
6 h |
|
|
Cartina
Kompass n.93 - Bernina-Sondrio |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
8a
Tappa - Dal rifugio Cristina a Caspoggio
Siamo ormai all'epilogo, cioè all'ottava e conclusiva
tappa, una tappa per vedere e rivedere, perché ci permette di osservare,
compiendo una lunga traversata sul fianco orientale della Valmalenco,
molti dei luoghi percorsi durante le giornate precedenti.
Una tappa venata da una punta di malinconia, che nasce subito nel segno
di un abbandono: è il Sentiero Italia, infatti, che ci lascia,
in quanto, come ci informa un cartello posto all'ingresso dell'alpe Prabello,
si stacca sulla sinistra dall'alta via per salire, verso sud-est, il fianco
montuoso e raggiungere il passo degli Ometti (m.2758), scendendo poi all'alpe
Painale ed al rifugio De Dosso,
in alta val di Togno. L'alta via non riserva invece più salite,
se si eccettua qualche breve strappo su un percorso che dal rifugio Cristina
conduce a Caspoggio.
Lasciamo
dunque l'alpe Prabello, salutando anche la chiesetta della Madonna della
Pace, posta sul suo limite meridionale ed edificata nel 1919 per salutare
la conclusione della Prima Guerra Mondiale. L'alta via si dirige quindi
a sud, verso una croce di legno che precede un tratto che si snoda fra
grandi rocce arrotondate. Il sentiero inizia a descrivere un ampio arco,
superando alcune piccole porte fra le rocce e dirigendosi verso sud-est.
In questo primo tratto possiamo anche vedere, in una bella conca fra radi
larici, più in basso, il laghetto dei Montagnoni. Raggiungiamo
poi la grande spianata dell'alpe Acquanera (m.2116), che si distende sotto
il monte omonimo (m.2806), rallegrata nel periodo estivo dallo scampanio
delle mucche. Se ci fermiamo qui per gettare uno sguardo alle nostre spalle,
potremo ammirare, in una giornata limpida, l'intera testata della Valmalenco.
Raggiunto
il limite dell'alpe, il sentiero prosegue verso sud-ovest, alternando
tratti nel bosco ad altri in cui si snoda fra la bassa vegetazione. I
triangoli gialli si alternano, lungo l'intera tappa, alle bandierine rosso-bianco-rosse.
Davanti ai nostri occhi appare ben presto la seconda grande alpe, l'alpe
Cavaglia (m.2056), anch'essa sovrastata dal monte omonimo (m.2728). Mentre
però l'alpe Acquanera suscita un'impressione di vita gioiosa, qui
prevale un senso di mestizia e di abbandono. Intanto, fra un tratto in
piano, uno in discesa e qualche strappetto in salita, abbiamo modo di
osservare bene anche gli scenari della seconda tappa, e soprattutto il
vallone di Sassersa ed il passo di Ventina. Lasciata alle spalle anche
l'alpe Cavaglia, proseguiamo la lunga traversata, ignorando diverse deviazioni
a destra che scendono alle frazioni sopra Caspoggio.
Il sentiero entra per un buon tratto in un bel bosco, dove
i giochi di luce ci ripagano, almeno parzialmente, della mancanza dei
grandi scenari montuosi ai quali le tappe precedenti ci hanno abituato.
Superato il largo dosso che scende verso nord-ovest dal pizzo Palino (m.
2686), cominciamo a perdere quota, scendendo da 2000 metri circa a 1800:
il sentiero qui esce dal bosco e si immette nella parte terminale di una
ripida strada sterrata che scende ai prati del Piazzo Cavalli (m.1777).
Superato il largo dosso che scende verso nord-ovest dal pizzo Palino (m.
2686), cominciamo a perdere quota, scendendo da 2000 metri circa a 1800:
il sentiero qui esce dal bosco e si immette nella parte terminale di una
ripida strada sterrata che scende ai prati del Piazzo Cavalli (m.1777).
L'ulteriore discesa avviene facilmente seguendo la strada sterrata, che
ci permette di raggiungere la chiesetta di S. Antonio (m.1337), dove si
trova una stazione intermedia degli impianti di risalita.
Da
S. Antonio, seguendo la strada che scende a S. Elisabetta oppure un sentiero
che raggiunge il limite superiore del paese, possiamo infine scendere
facilmente a Caspoggio, dove l'avventura dell'alta via, con qualche rimpianto,
termina. Siamo in cammino da 3-4 ore circa, e qualche salitella ci ha
fatto superare un dislivello in salita di circa 150 metri. |
|
Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 150 |
Tempo |
4 h |
|
|
Cartina
Kompass n.93 - Bernina-Sondrio |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
|