Non
tutti i musei sono racchiusi fra le mura di edifici illustri o meno illustri.
Ad Albaredo, centro dell’omonima valle del Bitto, è stato
allestito un Ecomuseo interamente inserito nell’ambiente naturale
del Parco delle Orobie Valtellinesi. Per visitarlo occorre percorrere
un sentiero, lungo circa 3 km e mezzo, che dalla chiesetta della Madonna
delle Grazie, poco oltre Albaredo, porta, in circa un’ora e mezza
di cammino, fino all’alpe di Vesenda bassa, appena oltre i confini
del comune, in territorio del comune di Bema. L’idea è quella
di mostrare alcuni luoghi tipici dell’attività contadina
di questa antichissima comunità orobica, presentandoli nella loro
cornice naturale, per esaltare l’effetto di immersione totale in
una dimensione che oggi facciamo fatica ad immaginare. Niente biglietti,
quindi, e nessuna limitazione per gli orari di accesso.
Ecco come si dipana la visita all’Ecomuseo. In automobile saliamo
dalla piazza S. Antonio di Morbegno ad Albaredo per S. Marco (m. 900 circa),
procedendo oltre, sulla strada provinciale per il passo di S. Marco, per
circa 2 km, fino a trovare, poco dopo il primo secco tornante sinistrorso,
sulla nostra destra la deviazione, segnalata, per il ristoro Via dei Monti,
per la Madonna delle Grazie e per il dosso Chierico. Imbocchiamo la stradina
che, superato il ristoro, alla nostra sinistra, porta alla chiesetta della
Madonna delle Grazie, dove, al parcheggio, lasciamo l’automobile,
a circa 1157 metri di quota. È, questo, un luogo denso di mistero,
legato alla leggenda
del Sassello, un pastore che, passando di qui una notte, diretto alla
casera di Pedena, dovette servire ad una messa inquietante, la messa delle
anime defunte del Purgatorio, che gli apparvero nella forma di pallidi
fantasmi. A questa leggenda si riferiscono i cartelli blu-notte che segnalano
il Sentiero dei Misteri.
Ma noi siamo sulla traccia delle orme della storia, e non della leggenda.
E calpestiamo l’antica Via Priula, tracciata sul finire del Cinquecento
per volere della
Repubblica di San Marco, che la sfruttò, nei secoli successivi,
per incrementare i suoi commerci con l’Europa settentrionale. Il
suo tracciato qui scende, con qualche serpentina, fino al ponte Binnocchio,
che scavalca il torrente della Valle Piazza, e prosegue fino al successivo
ponte delle Leghe, sul torrente Pedena.
Qui troviamo la prima tappa dell’Ecomuseo, con
una scheda-cartello che illustra la struttura e le funzioni dell’antica
segheria, costruita nel 1935, quando l’energia elettrica
proveniente da Gerola permise di azionare il motore a nastro (mentre prima
funzionava una lama a telaio, azionata da una ruota idraulica mossa dalle
acque del torrente). La grande ricchezza di boschi di conifere della Valle
del Bitto di Albaredo ha favorito l’affermazione del mestiere del
boscaiolo, detto “burelèr” (“bur” è
il grosso tronco; “nà a burèla" significa rotolare
lungo un pendio, come farebbe, appunto, un tronco). I tronchi delle piante
abbattute venivano convogliati fin qui con il sistema della fluitazione,
cioè sfruttando i torrenti, il Bitto, il Pedena, il Piazza, che
venivano arginati in modo tale che questi, seguendo una sorta di scivolo
detto “val”, non uscissero dall’alveo o non si mettessero
di traverso.
Oltrepassato il ponte, incontriamo un secondo cartello,
che segnala, appena sotto la strada, l’allestimento di una carbonaia.
Incontriamo, così, idealmente una seconda figura di lavoratore
connesso con il bosco e la sua ricchezza, il carbonaio. La sua attività
è sopravvissuta in valle fino ad un paio di generazioni fa. Un’attività
che richiedeva attenzione e maestria, perché errori o disattenzioni
rischiavano di mandare letteralmente in fumo il lavoro di giorni. Si doveva
trovare una radura pianeggiante, nel cui mezzo si costruiva, con tronchi
di piante fogliate, una camera, il forno, al cui interno veniva lasciata
una cavità di circa mezzo metro. Intorno al forno si appoggiavano,
poi, in posizione verticale, pezzi di legno lunghi non più di un
metro, avvolgendolo con due o tre giri e circondandolo interamente, sopra
e sotto, in modo da formare una specie di cupola. Al suo centro doveva
essere assicurata un’apertura, una sorta di caminetto, collegata
con la camera centrale. La cupola veniva, quindi, ricoperta di terra,
letale e foglie, in maniera tale che rimanessero alcuni canali di sfiato.
Terminata la carbonaia (il “puiàt”), si accendeva il
fuoco al suo interno, introducendo dal camino piccoli rami secchi incendiati.
Lo scopo era quello di produrre una lenta e costante combustione, che
andava sempre sorvegliata, per evitare che il fuoco ardesse troppo, bruciando
la carbonaia, o si spegnesse. Se necessario, si interveniva anche con
l’acqua per moderare la combustione: per questo i puiàt venivano
costruiti non lontano da corsi d’acqua. Quando tutto andava bene,
la lenta combustione, che durava giorni, produceva il carbone. Al termine
della combustione, annunciato dal fumo più chiaro, il carbone veniva
estratto, posto in sacchi, pesato e venduto, soprattutto a Morbegno.
Procediamo ancora per un breve tratto, riprendendo a salire in direzione
del dosso Chierico, fino a trovare, sulla destra della pista, la terza
tappa dell’Ecomuseo, dedicata al casello del latte.
Nei caselli veniva posto il latte appena munto, e lasciato il tempo necessario
perché affiorasse la panna. Ad una funzione analoga servivano,
nei maggenghi e negli alpeggi, apposite grotte (“canivèi”)
o costruzioni (“budelére” o “budülére”,
baitelli di alta quota al cui interno scorreva un ruscelletto, per tenere
in fresco il latte).
La valle è assai legata al prodotto principe della sua economia
contadina, il formaggio
Bitto, il cui pregio raffinato è assai noto, prodotto negli
alpeggi. Non bisogna però dimenticare altri prodotti, a torto definiti
“minori”. Fra questi, i “matusc".
Dalla panna ricavata dalla scrematura nei caselli (per la quale si utilizzava
la “cazzetta” o “spanaruola”) si ricavava il burro,
mentre con il latte scremato si producevano anche formaggelle magre (in
forme che non superavano i 2,5 kg) dette, appunto, “matusc",
complemento importante dell’economia contadina e frutto di un’attività
casearia prevalentemente femminile.
La loro lavorazione prevedeva che il latte fosse portato a 35°, prima
che si aggiungesse il caglio costituito da liquido di vitello. Rotta la
cagliata a dimensione di piccoli piselli, veniva depositata nelle fascere
e pressata per l'eliminazione del siero in eccesso. Dopo qualche giorno
le forme venivano salate esternamente a secco e poi poste in ambiente
fresco e ben arieggiato per la stagionatura, che durava almeno 45 giorni.
Salendo ancora, raggiungiamo le baite più basse del dosso Chierico
(m. 1219), ed un bivio, al quale dobbiamo lasciare la via Priula, che
prosegue verso il passo di S. Marco, per imboccare una larga pista-mulattiera
che scende sulla destra (indicazioni per l’abete di Vesenda, l’alpe
di Vesenda bassa ed alta, la casera di Garzino e la casera Melzi). Si
tratta della mulattiera che si addentra in direzione del cuore della valle,
raggiungendo, infine, il torrente Bitto, per passare sul lato opposto
e salire all’alpe di Vesenda bassa.
Seguendola, ignoriamo due deviazioni sulla destra, che scendono al torrente
Bitto, ed affrontiamo un tratto in leggera salita, prima di uscire dal
bosco ed incontrare la quarta tappa dell’Ecomuseo,
dedicata ai forni fusori, di cui incontriamo alcuni ruderi
dei muri perimetrali, a quota 1180, nella zona del bosco d’Orta.
La ricchezza di legname del bosco e la vicinanza del torrente Bitto hanno
dettato la costruzione dei forni in questa zona. All’interno dei
muri perimetrali si trova una fasciadi terra che li isola dal forno vero
e proprio, al centro, di forma conica.
Nel forno veniva bruciato il carbone, fino a raggiungere una temperatura
di 1200 gradi, che permetteva di separare il minerale di ferro dalla roccia
che lo conteneva. Il processo, durante il quale il fuoco veniva alimentato
da grandi mantici azionati con la forze delle acque del Bitto, durava
diversi giorni. Durante
la notte i bagliori di questi fuochi si diffondevano in questa zona, conferendole
un’atmosfera sinistra difficile da immaginare. La produzione del
ferro, fin dal medioevo, fu un importante elemento nell’economia
delle valli orobiche: il prodotto veniva poi trasportato nella bergamasca
attraverso i valichi alpini.
Manca la quinta ed ultima tappa dell’Ecomuseo,
posta al di là del Bitto, nel territorio che è già
di Bema, all’alpe di Vesenda Bassa. Si tratta del più celebre
albero della Provincia di Sondrio, l’abete
di Vesenda. Lo raggiungendo proseguendo sul sentiero e scavalcando
il Bitto: usciti dal bosco nei pressi di una bella radura, posta proprio
nel cuore della valle, ci portiamo riva orientale del torrente, e lo possiamo
attraversare sfruttando un ben visibile ponte formato da grandi massi
(m. 1251). Sul lato opposto troviamo facilmente il sentiero che sale verso
l'alpe di Vesenda bassa. Saliamo per un tratto, superando un boschetto
di abeti, fino a giungere in vista dei muretti diroccati che segnano il
confine dell'alpe, poco sopra i 1350 metri. Ora guardiamo alla nostra
destra: vedremo un fitto bosco di abeti, dal quale emerge la solitaria
chioma diradata dell'Abete di Vesenda, riconoscibile, appunto, non solo
per i suoi rami volti all'insù (caratteristica dell'abete bianco),
ma anche per la povertà dei rami nella parte alta del tronco. Per
questo il suo profilo spicca nella compagine degli alti abeti del bosco.
Avviamoci quindi verso il limite del bosco ed addentriamoci fra gli abeti
per un tratto: in breve ci troveremo presso due tavoli in legno, ideali
per una sosta ristoratrice.
Il grande abete si solleva verso il cielo a pochi metri dai tavoli, vetusto
nel suo carico d'anni ma sempre possente nella sua sorprendente mole.
Dalla parte bassa del tronco, in particolare, parte un grande ramo dalla
forma singolare, che ha tutta l'aria di rappresentare una sorta di grande
braccio piegato ad angolo retto verso l'alto. Qualche numero ci può
dare l’idea della sua imponenza: si tratta di un abete bianco (abies
alba) dall'età veneranda (dai
300 ai 350 anni) e dalle dimensioni ragguardevoli (38,50 metri di altezza,
5,65 metri di circonferenza, 1,79 metri di diametro a petto d'uomo, 32,60
metri cubi di volume totale). Qui non è l’uomo, con i suoi
manufatti ed i segni della sua attività, ad essere protagonista,
ma la natura, con la sua sorprendente capacità di creare monumenti
di fronte ai quali si resta prigionieri di una profonda meraviglia.
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